lunedì 31 dicembre 2012

tanto per



La divisione convenzionale del tempo ci porta a celebrare avvenimenti che non trovano riscontro nella realtà naturale ma solo nella realtà sociale. Se è condivisibile festeggiare il 21 Dicembre come rinascita del Sole, con il 31 Dicembre festeggiamo solo un calendario che ci siamo inventati.
Però è innegabile constatare che stiamo festeggiando una separazione e al tempo stesso un compleanno, segno evidente che nel nostro immaginario queste due cose, separazione e nascita, hanno un enorme valore.
Ieri sera ho avuto uno scontro notevole con tre amiche sul tema della nascita, una di loro si è particolarmente risentita quando ho sostenuto che il feto non è un bambino e che non ha sentimenti, immagini o affetti ma solo funzioni fisiologiche. Ho tentato di spiegarle che un conto sono le implicazioni psicologiche per la donna e altro è la realtà oggettiva del feto. Le donne tendono ad immaginarsi il bambino prima che nasca (cosa comprensibile) ma talvolta non sanno distinguere fra rappresentazione e realtà, fra io interno (il loro) e realtà esterna (il nascituro) anche se si trova nella loro pancia. In altri termini proiettano sul feto una loro realtà perché sentono il feto con il proprio corpo e pensano che "sia" il proprio corpo. Si sentono creative per questo e mi guardo bene dal contestare questa convinzione.
Non ho avuto il coraggio di raccontare che l'organismo della donna in gravidanza produce una sorta di gene inibitore che le impedisce di espellere il feto come se fosse un corpo estraneo. Troppo difficile da accettare.
Accontentiamoci quindi di festeggiare la separazione dal vecchio anno e auguriamo ad ogni nuovo nato di riuscire a separarsi in pace nonostante tutto.
Nella foto ho messo la porta di casa mia, che lascio aperta agli amici. Sullo sfondo le finestre non si affacciano sul giardino ma sul paesaggio della casa in campagna. E' un fotomontaggio che mi serve per fare una rappresentazione, come quando sogno di stare dormendo in una casa ed invece mi sveglio nell'altra.
A me talvolta capita, ma è affar mio, non della casa. 

venerdì 28 dicembre 2012

Nebbiolina mattutina



Stamani, uscendo da casa, mi sembrava di essere in uno di quei film fantapolpettosy dove, fra le nebbioline che fanno tanto mistero, pare non vi sia alternativa alla solita solfa della lotta "del Bene contro il Male".
A dire il vero, di questi tempi e con questa crisi economica provocata ad arte, oltre che con sommo disprezzo di noi sudditi, bisogna essere davvero dei cavalieri senza macchia e senza paura per andare a lavorare o a cercare lavoro, poiché il lavoro è ormai generalmente precario, proprio come un ponte fatiscente sull'abisso della miseria.
La depressione mentale che questa situazione nutre e induce è rinforzata e sostenuta da un panorama politico a dir poco avvilente.
Ma i migliori non perdono mai la speranza e, soprattutto, non smettono mai di lottare.
Il nemico, ossia polpettonianamente il Male, sono le multinazionali e le banche, che hanno al loro seguito (e come prestanomi) governi nazionali, nonchè uno stuolo di fiancheggiatori disseminati ovunque nell'informazione pubblica.
Trovare la strada per una sana e doverosa ribellione è divenuto oltremodo arduo, ma improrogabile.
Stamani ero incerto se ridere o piangere quando ho letto, sulla maggior parte dei quotidiani, la medievalissima notizia che il Vaticano appoggerà Monti.
Una valanga di pensieri si è staccata dalla mente e, franando, ha composto questo mio piccolo post.
Adesso vago tra le nebbie, ma spero di trovar riparo in una qualche foresta di Sherwood, magari insieme a qualche bandito, di certo non insieme a un Robin Hood, ché ce ne sono già troppi che si spacciano con quel nome.

mercoledì 19 dicembre 2012

blu genovese



Fra l'inarrestabile invecchiamento delle mie cellule si affacciano considerazioni scolorite.
Invecchiamento!
Cazzo!
Camminavo sul lungarno quando lo sguardo m'è caduto su un bel paio di gambe. Più che la bellezza, solo intuibile perchè nascosta da un paio di jeans, ho capito che era l'andatura a essere attraente. Ma questo mi porterebbe fuori argomento...
Quando le gambe si sono avvicinate ho visto meglio i jeans. Erano sapientemente stracciati, scoloriti e sfilacciati, due bei tagli sopra le ginocchia a mostrare una pelle dorata, e uno strappo verticale giù vicino all'orlo che permetteva un'occhiata alla caviglia.
La memoria è andata come una saetta ai miei diciott'anni, tempi in cui, quando acquistavi dei jeans, ti ritrovavi con un paio di cartoni che ti immobilizzavano le gambe.
Ma subito iniziava la lunga storia del loro invecchiamento: un lavoro che li forgiava a tua immagine e somiglianza!
Ci volevano mesi e mesi per renderli belli, morbidi, scoloriti nei punti giusti, ad esempio sopra le cosce, sul culo, sulle tasche, sulle cuciture. A qualche maiale si notava un'accentuata decolorazione in prossimità dell'uccello, segno manifesto che non faceva altro che strofinarselo. Ma esistevano anche scoloriture più professionali. Ricordo che quando ero apprendista fotografo asciugavo le dita (bagnate di acidi perchè a quei tempi si sviluppavano i rullini e si stampava in camera oscura) sui fianchi, per cui i miei jeans in quel punto erano letteralmente sbiancati a "ditate".
Guardando i pantaloni di quella bella ragazza ho pensato alla falsità che ti vendono quando te li danno già strappati e stinti (e te li fanno pagare anche di più!!!), senza che abbiano una storia vera. Come se la gente si comprasse una fiction precotta, o vivesse una storia inventata da qualcun'altro, insomma un'identità farlocca.
E mentre disapprovavo quest'usanza ipocrita che annulla la storia e il lavoro, ho pensato ad Anna Magnani e alla famosa risposta che dette al truccatore che voleva diminuirle le rughe:
C'ho messo una vita per farmele venire e tu me le vorresti togliere???
Dio bono, l'invecchiamento è un lusso da indossare con classe!

giovedì 13 dicembre 2012

pensierini al freddo



Se poggio le dita sulla tastiera, per scrivere a cazzo di cane come mio solito, non succede niente. Escono fuori giusto poche e inutili parole (oddio, non che ne abbia mai scritte di utili...).
Che io stia diventando un po' più intelligente?
No, non c'è pericolo.
Non so perché ma mi torna spesso alla mente un passo de L'idiota (o era ne I Demoni? Vabbè, comunque era di Dostoevskij) in cui il grande scrittore descriveva una condizione umana comune a tutte le persone dotate di un'intelligenza medio-alta, ossia che non sono abbastanza stupide da poter vivere beate ma nemmeno abbastanza geniali da saper risolvere i problemi.
E quindi patiscono la prigione della loro mediocrità, alta o bassa che sia.
Dostoevskij era davvero un gigante!

venerdì 19 ottobre 2012

Io ve lo dico...


Detesto la pubblicità, figuriamoci farla. Ma qui si tratta di simpatia, affetto e stima. Il nuovo libro di Nicola è imperdibile. 

giovedì 11 ottobre 2012

Piccole, demenziali polemiche



Infuria la polemica sulla battutaccia dell'AD della Fiat a proposito di Firenze, definita una piccola, povera città.
A dire il vero avrei altro per la testa e sarebbe meglio tacere, in fondo una frase cretina si commenta da sola.
Mi dispiace solo che questo porti acqua al mulino del mefitico ciellino Renzi, che vedrà i fiorentini adunarsi intorno a lui in difesa del buon nome della città.
Firenze è indubbiamente bella e ricca d'arte. Per il resto è una banalissima città, soprattutto se voterà ancora gente come Renzi.

domenica 23 settembre 2012

Del fancazzismo ed altri aneddoti, che Kipling mi perdoni.


Prima fare e poi interpretare. Pensare prima di fare serve per riparare un lavandino, per fare la spesa o per guidare l'auto, non per l'arte e tantomeno per il sano cazzeggio.
Fatta questa premessa posso raccontare le mie cazzate.
Il cazzeggio è sacrosanto, lo sostengo da tempo.
Ero in un momento di fancazzismo spinto, quello che più si confà alla mia indole, e ho acceso il registratore. Avrei potuto, con più costrutto, dedicarmi a letture illuminanti o all'ascolto di un quartetto di Shostakovich o alla contemplazione degli astri, ma era nuvoloso, Dimitri lo conservo per momenti più consoni e di leggere non avevo voglia, di cazzeggiare invece sì, eccome!
Era un bel po' di tempo che non registravo niente e non avevo la più pallida idea di cosa registrare. Ma le dita, a volte, vanno da sole e la voce canta a cazzo di cane (la mia non sa fare altro): ho composto l'inno al cazzeggio!
Dopo averlo registrato mi son chiesto che cavolo di ribongia avevo imbastito, mixandolo ho avuto non pochi problemi logistici, tutto si sovrapponeva. Ma il cazzeggio è sacrosanto e va rispettato come fosse una forma d'arte. Inoltre non prendersi sul serio rende liberi e leggeri.
Mi sono domandato perché mai a un certo punto avessi farfugliato un paio di versi di Kipling, venuti a galla chissà da dove. Poi mi sono ricordato che nei primi anni settanta avevo composto due canzoni con la sua celebre poesia "if". Una l'avevo composta per la compilation di un amico (e trent'anni dopo la riascoltai per caso dagli altoparlanti di una festa dell'Unità mentre provavano l'impianto, e che cazzo!), l'altra era la colonna sonora per un film su una mostra di sculture che Henry Moore fece al Forte Belvedere. Quest'ultima mi dette anche l'occasione e l'onore di conoscere personalmente il celebre scultore nella sua casa a Vittoria Apuana (ma l'avevo già scritto? Di sicuro sì, pazienza).
Bene, ma a parte gli aneddoti, mi son chiesto, che cazzo c'entra quella poesia in mezzo al bordello demenziale che ho registrato?
Cosa ha a che vedere col fancazzismo e con la mia cialtroneria?
Mi sono risposto che, evidentemente, l'ho usata come rappresentazione del superio in contrapposizione al casino che stavo facendo.
Oh Ruhe' va bene il cazzeggio, ma sproloquiarci sopra e metterci anche i risvolti psicologici è un po' eccessivo!!!
Boh, non saprei, però quella poesia, bella, ci mancherebbe, è così infarcita di nobili principi tesi alla realizzazione dell'uomo nella sua completezza, da apparire quasi come un monito (di un superio appunto) alle orecchie di un fancazzista. Quarant'anni fa ero un ragazzino e quei versi mi sembrarono uno splendido faro. Lo sono anche oggi (un faro i versi o io un ragazzino? Bah, le parole...), però mi permetto il lusso di dissacrarli, forse perché ambisco ad essere un po' burattino ribelle e trovo saggio prendermi in giro retrospettivamente da solo (ovviamente non oserei mai farlo con Kipling).
Sia chiaro, il pezzo è un guazzabuglio registrato in casa e senza attenzione, proprio come vuole il manuale del vero fancazzista, però va ascoltato con delle cuffie, perché gli altoparlanti dei computer di solito fanno schifo e siccome già fa schifo la registrazione...
Il video poi è solo un pretesto per caricare la musica, un'accozzaglia di foto.

martedì 18 settembre 2012

Piccole scoperte, cinema vero



Mi ci voleva un bellissimo film di Aki Kaurismaki per scoprire e ascoltare un puffo che canta meravigliosamente il rock e lo fa da una vita. Si chiama Little Bob ma è di origine italiana, il suo vero nome è Roberto Piazza. Giuro, non ne avevo mai sentito parlare (e me ne vergogno), la sua voce è perfetta, il suo modo di cantare anche, e il rock che suona è del tipo classico. Ha una piccola parte nel film che si intitola Le Havre, coglionamente ribattezzato in italiano "miracolo a Le Havre". Una vera chicca, ve lo garantisco, e spero che ricompaia su youtube, perchè volevo mettere il link ma ho appena visto che è stato tolto.
Metto invece qui il brano del film in cui compare Little Bob.
A me vedere questo anziano rocker col visino tondo e l'aspetto da hobbit mi ha fatto tenerezza, pensando che invece, di solito, i rocker cercano di atteggiarsi a "duri". Ma lui con quel musino che poteva fare? Lasciava fare tutto alla sua voce e chi ha orecchio lo capirà.

sabato 15 settembre 2012

L'arco iridescente



L'arcobaleno ha un fascino unico. Appare all'improvviso come fosse una magia, come fosse un sogno. Non c'importa niente di conoscere l'analisi scientifica della sua formazione, a noi apparirà sempre come una meraviglia, lasciandoci incantati ad ammirarlo, felici di essere lì e averlo visto per i pochi attimi in cui si mostra.
A volte penso che sia la rappresentazione del desiderio,
così irraggiungibile,
instabile e sfuggente,
un Proteo iridescente.
Un desiderio dei nostri stessi occhi.
E quando c'è va saputo cogliere e vivere.

(Cazzo ma coglierlo col telefonino fa incazzare, dio lesso! Mai che abbia con me la fotocamera quando mi serve.)

venerdì 7 settembre 2012

La Folia



Credo che la paura della follia sia una caratteristica universale del genere umano, tant'è che si è cercato di sviscerarne il senso e il significato fin da quando l'essere umano ha iniziato ad avere coscienza di sè. La nostra storia di occidentali ci lega, ahimè, all'idea greca di porre le basi dell'identità umana nella ragione, ponendo al di fuori di essa tutto ciò che essa non comprende o non riesce a comprendere. La follia è l'opposto della razionalità e in un mondo razionale viene vissuta come sciagura, perdita del senno, delirio, infatuazione, malattia, possessione e via dicendo. Eppure, solo un povero e grigio razionalista non sarebbe capace di ammettere quali e  quanti frutti dell'umano ingegno sono scaturiti da una "sana follia". Essa è il sale della vita e bisogna essere capaci di viverla con intelligenza. Non a caso le autentiche passioni amorose vengono sempre additate come portatrici di follia, ma chi non le ha vissute è un essere umano a metà.
Nella storia della musica esiste un tema famosissimo, la Folia appunto, che ha origini medievali. Rachmaninov vi compose delle variazioni molto belle, credendo erroneamente che quel tema fosse di Corelli, infatti si chiamano variazioni opera 42 da un tema di Corelli, ma Corelli quel tema l'aveva preso altrove. Ci sono anche delle stupende variazioni per chitarra di Manuel Ponce, difficilissime e meravigliose nell'esecuzione di John Williams. Un'altra variante la si può ascoltare nel celebre film di Kubrik "Barry Lindon". E poi ci sono le variazioni di Domenico Scarlatti da non dimenticare e c'è traccia di quel tema anche nella quinta di Beethoven. Ad ogni modo pare che oltre un centinaio di musicisti si siano cimentati con la  Folia.
Essa è assai antica, sec.XV circa, di origine portoghese e la sua forma originale pare perduta. Quello che conosciamo invece è un tema piuttosto lento e melanconico, dal portamento maestoso, mentre il nome stesso Folia unito a qualche rara notizia ci induce a pensare che in origine si trattasse di un motivo assai sfrenato, paragonabile alla nostra taranta. A chi faceva paura quella sfrenatezza ritmico musicale? Forse ai soliti preti e agli annessi musicisti leccaculo, o all'aristocrazia che nei propri salotti non tollerva sguaiataggini da contadini. Ma tant'è, abbiamo vissuto schiavi dei moniti di Platone, che temeva la musica lasciva dell'aulos e dei riti dionisiaci preferendo l'arpa e l'apollinea staticità di intervalli misurabili e fissi. Secondo me Platone non scopava mai, ma ammesso ( ne dubito) che lo facesse non cambiava mai posizione!
E quindi il tema originale della Folia è andato perduto, dimenticato, dissolto. Per fortuna la musica è immagine acustica e anche se perde una figura riesce sempre a ritrovarne il senso e la passione.

giovedì 23 agosto 2012



Vorrei un luogo mio
che non fosse nascosto
fra parole che mentono.
Un luogo,
dove tu potessi trovarmi
sempre.
A quel luogo si dà un nome:
noi stessi.
E chiamandolo così
lo chiudiamo fra mura inesistenti,
mutevoli,
chè non sono certo mie
e non sono certo tue.
Mura di sabbia
che cambiano il paesaggio
col vento dei capricci o dei pensieri
sbagliati o veri.
Ed è per questo
che le parole mentono,
ma non il corpo,
amore mio.

mercoledì 22 agosto 2012

un bel post


Come appendice al post precedente metto un link ad un post molto carino e ben scritto.

giovedì 16 agosto 2012

riflessioni accanto al solito gatto diffidente



Se le persone sapessero veramente cos'è il denaro e come si genera, forse cercherebbero pian piano un modo per svincolarsene. Invece ne restano sempre più attratte con l'inganno di potersi godere la vita.
Un'amica intelligente e dolcissima sta tentando, nel suo piccolo, di ripristinare e incoraggiare lo scambio e il baratto. Lei propone quello che ha da offrire in cambio di quello che uno ha o sa fare, senza passaggio di denaro.
Io l'ammiro!
Purtroppo il sistema mondiale si basa sul denaro e per tasse e bollette lo stato e le aziende non prevedono scambi di sorta, ci impongono l'uso del denaro imprigionandoci in un giochetto che non lascia molto scampo. Alla fine tutti diranno che del denaro non se ne può fare a meno. Ma il denaro non è nè acqua nè cibo nè casa nè abiti caldi. E' un inganno. Infatti molti spendono la loro vita per procurarsi quei soldi che gli serviranno per procurarsi acqua, cibo, casa e abiti, distogliendoli dall'imparare un lavoro concretamente produttivo dal punto di vista della sopravvivenza, fosse anche per uno solo dei quattro punti che ho elencato. Se ne potrebbe aggiungere un quinto, ossia l'interesse verso la cura delle malattie, stando attenti a separare il medico dalle case farmaceutiche che inventano spesso dei farmaci farlocchi o dei farmaci che fanno più danni della patologia che promettono di curare. Ma io ho grande rispetto dei medici, quelli veri, e quindi sono propenso ad accoglliere come quinto punto la medicina.
Sarebbe bello sfottere i banchieri e i cultori del debito pubblico, mandandoli a piantar patate per sfamarsi.
Leggendo un libro sulla vita di Eleonora D'Arborea ho visto (ma non avevo certo bisogno di leggere quel libro per saperlo), che nel medioevo i nobili si scannavano anche fra fratelli per questo o quel dominio. Il Papa poi dava il suo appoggio ad un regnante o all'altro, ossia benediceva un'azione di guerra saccheggiatrice, se in cambio gli si dava una percentuale. C'aveva l'investitura divina, mica scherzi, era Dio che ordinava al Papa chi sterminare e chi no. Dio non si discuteva, il suo potere era assodato (come il denaro).
Poi c'erano quelli meno remissivi, quelli che non erano intontiti dalle cazzate o che non erano disposti a mettersi a quattro zampe di fronte al Papa in vista di divine protezioni e si mettevano anche contro il Papa stesso. Ma era sempre una storia di interessi economici, salvo rari casi come quello di Mariano D'Arborea, padre di Eleonora, che disse chiaro e tondo a Bonifacio VIII di andare affanculo [1] quando questi dette il possesso della Sardegna al re d'Aragona (purchè se la fosse andata a conquistare).
Ma scusa Bonifa' che è tua la Sardegna? Che cazzo stai a di'?
Mariano si preoccupò dell'agricoltura sarda, agevolò e raccomandò la coltivazione della vite, mise dei limiti al pascolo delle pecore, che altrimenti avrebbero distrutto i campi coltivati, lasciò liberi i contadini di fare quel che cazzo gli pareva  e di spostarsi come volevano, ma si mise anche a redigere un codice di leggi che mettesse tutti d'accordo e questo codice fu ultimato dalla figlia Eleonora, che passò alla storia perchè nessuna donna aveva mai redatto un simile documento, nel quale, questo va detto, trovò posto anche una prima idea di difesa dei diritti della donna!
Bene, ricapitolando, io so fare (poco) lavori di falegnameria, idraulica, muratura, elettricità, orticoltura, cucina e, alla fine, strimpello pure la chitarra. Cazzo, dico, potrei sì o no fare a meno del denaro?

[1]in realtà i Papi ai quali si oppose Mariano IV furono UrbanoV e Gregorio XI, ma in sostanza essi continuavano nell'assurda pretesa di considerare la Sardegna come una terra infeudata (consegnata) da Bonifacio VIII agli Aragona subito dopo la morte di Mariano II

mercoledì 8 agosto 2012

incontri

Non che ami particolarmente i post su gatti o cani, a dire il vero detesto chi non scrive altro che dei suoi "micini", ma ogni tanto sono loro che mi chiedono di scrivere qualche notizia senza infarcirla di troppe cazzate.
Ed io li accontento.
Quassù, nella casa di campagna-montagna, non passa quasi mai nessuno, è isolata in mezzo ad un bosco, ci vuole la Jeep per arrivarci e la vita sociale si riduce a dialoghi poco filosofici con cinghiali, caprioli, volpi, poiane, cinciarelle, tassi ed anche qualche vipera.
Poche sere fa' è comparso un gatto, cazzo, cosa ci fa da queste parti? E da dove viene?
E' bianco e nero, o forse nero e bianco come la storiella del mezzo bicchiere, ed è guardingo e diffidente come un lupo (spero non si offenda per il paragone). Non si avvicina a meno di cinque metri ed ho imparato a muovermi lentamente per non spaventarlo. Non ho niente da dar da mangiare ad un gatto, la carne è rarissima nel mio frigorifero e le verdure o i pomodori non sono proprio una leccornia per un felino. Però abbiamo trovato una certa intesa col parmigiano (il pecorino sardo col cazzo che glielo do), gli ho proposto qualche scaglia su un pezzo di scottex e pare ne vada ghiotto,  ma non so se gli faccia bene.
Sono tre sere che torna e l'ho visto anche una mattina all'alba nel campo sotto casa.
Poi sparisce tutto il giorno.
Stasera s'è pappato mezz'etto di parmigiano (stamani mi sono scordato di comprargli dei fegatini di pollo giù in paese) e se ne sta buono a guardarmi a tre metri di distanza: una conquista di due metri di fiducia!
Vedremo se riuscirò a carezzarlo.
Ecco, adesso s'è mosso e si è avvicinato alla casa, sta ispezionando il perimetro, anzi no si è disteso sulla pietra calda di sole il furbacchione, sta prendendo confidenza.
Io mi bevo una birra e lui m'osserva, ascolto la chitarra di John Williams e lui pare apprezzarla.
Questo gatto mi piace, ma temo che sparisca come avvenne per una meravigliosa gattina molti anni fa.
Ma questa è un'altra storia.
E pensare che volevo scrivere un post su Eleonora D'Arborea e sull'importanza di un noiosissimo ma interessante libro sulla sua vita.
Pazienza.

giovedì 2 agosto 2012

amaca


Sull'amaca si sale o
dall'amaca si scende
ma chi sale sull'amaca
scende dai pensieri,
per questo appendo la mia amaca dappertutto,
anche fra i tuoi seni.

martedì 10 luglio 2012

sehnsucht




Un folletto,
svelto e leggero
viaggiava solo
e raccoglieva il mondo.
Aveva sete,
l'avevo anch'io
e bevemmo insieme
sorrisi felici.
Poi via, a raccogliere altro mondo.

mercoledì 20 giugno 2012

Un piccolo grande cane




Leggendo il blog di un'amica mi è venuta voglia di dedicare un post ad un grande cane che in realtà era molto piccolo.
Il suo nome d'origine, quello sul pedigree, era Elk dei prativerdi, ma la sua padrona lo chiamò Bilbo, come il personaggio del Signore degli anelli.
Bilbo era uno Shitzu, una razza i cui esemplari più belli venivano portati dai monaci tibetani in omaggio all'imperatore.
Ma vorrei lasciare da parte le antiche e nobili origini per parlare di lui.
A dire il vero quando iniziai a frequentare la sua padrona avevo dei pregiudizi sui cani che ritenevo fossero ninnoli da salotto. E le dimensioni di Bilbo, che a quei tempi non aveva ancora due anni, corrispondevano in pieno a quella tipologia, ma la sua padrona, una bravissima pittrice, non lo teneva certo come una bomboniera ed il suo aspetto era assai selvaggio e fricchettone, oserei dire da barbone se non temessi di offendere l'identità di Bilbo.
Estremamente orgoglioso, testardo, indipendente, autonomo e poco propenso alle moine, salvo le grattatine sulla pancia, Bilbo, mi fu spiegato da un esperto, era per carattere un dominante e non temeva cani di taglia ben più grossa della sua. L'ho visto ringhiare ad un Rottweiler che si accucciò timoroso in un angolo, mentre invece una volta pensò di mettere al suo posto un pastore tedesco, meno remissivo del Rottweiler, col risultato che Bilbo non potè alzarsi dalla cuccia per due settimane. Che Bilbo venisse dal Tibet lo capii durante le escursioni invernali, quando lo vedevo avanzare intrepido nella neve alta che gli si attaccava al pelo e gelando lo raddoppiava di peso. Ma lui non si fermava di fronte a niente. Da dove traesse tutta quella energia non lo so davvero, ma notai che la struttura fisica era quella dei molossi, zampe corte, un po' storte e muso schiacciato, un disastro estetico ma simpaticissimo. Il pelo poi ingannava molto sul suo vero aspetto, perché quando era bagnato fradicio si notava la sua atletica e snella corporatura. Shih-Tzu significa cane leone.
Era fondamentalmente buono e affettuoso, l'unico problema che aveva era il terrore dei temporali, li percepiva ben prima che arrivassero ed iniziava a perdere la testa, sgranava gli occhi e cercava rifugio ovunque senza trovar pace.
Bilbo girellava liberamente per il quartiere e quasi tutti lo conoscevano e gli volevano bene, ma per rassicurare gli estranei che lo vedevano da solo pensando che si fosse smarrito, la sua padrona gli aveva scritto un messaggio su una medaglietta supplementare che recitava così:
Sono Bilbo, non mi sono perduto, torno da solo, grazie!
Fu durante uno dei suoi piccoli vagabondaggi che fu sorpreso da un violentissimo temporale. Nel frenetico tentativo di cercare riparo salì al volo su un autobus e creò scompiglio fra i passeggeri, poi l'autista lo scaraventò di sotto alla fermata successiva (da allora detesto gli autisti dell'Ataf!). Questo mi fu raccontato da una gentile signora che scese dall'autobus per salvare Bilbo e lasciarlo in consegna ad un Hotel del centro affinchè avvertissero il proprietario del cane.
Un altro episodio simile avvenne durante il G8 a Firenze, sempre a causa di un temporale Bilbo scappò ed entrò nella "zona rossa" del summit. Fu prontamente catturato dalle forze di polizia quale pericolosissimo sovversivo e condotto in gattabuia. Lo recuperammo al canile il mattino seguente, aveva l'aria di un vero teppista che ne ha passate di tutti i colori ed è fiero delle sue avventure.
Bilbo morì all'alba di un giorno d'ottobre nella mia casa di campagna, aveva sedici anni e mezzo. Lo avvolsi in una tenda di cotone bianco, inzuppata delle mie lacrime, scavai una piccola buca nel prato a destra della casa e lo seppellii. Lì accanto adesso c'è un piccolo pero e penso che prima o poi ai frutti spunteranno i peli di Bilbo.

martedì 12 giugno 2012

Il genio è saggezza e gioventù (E.L.Master)




Scrivere è un po'  come versare il tempo in un'ampolla.
Chi legge apre l'ampolla ed il tempo si rimette a scorrere.
La forma della musica è il tempo, e questo vale anche per la scrittura.
Dette, anzi scritte, queste banalità mi soffio il naso per una autocompiacente commozione. Adoro sfottere il mio narcisismo, lo trovo terapeutico e forse mi fa anche benvolere.
Chi invece non si soffiò il naso ma il cervello fu Carlo Gesualdo.
Era sicuramente un egocentrico narcisista, oltre che un assassino. Mi mette a disagio pensare che Carlo Gesualdo Principe di Venosa venga considerato un "genio" originale per le sue composizioni musicali, mentre per quanto riguarda il suo gesto criminale nessuno nota che non si discostò in nulla dalle brutali usanze della sua epoca.
Spesso penso che la sua biografia si sovrapponga all'opera e confonda le menti sottomesse alla consunta e stantia idea di "genio e pazzia".
Questo bastardo uccise la moglie ed il suo amante, architettando la messa in scena della propria assenza di due giorni per andare a caccia e poterli così cogliere in flagrante. All'epoca questo gesto assurdo era considerato "dovuto".
I due amanti invece erano, loro sì, originali e rivoluzionari, perchè sapevano che Gesualdo li avrebbe uccisi e non fecero niente per dissimulare il loro legame amoroso.
Forse anticipavano addirittura il romanticismo.
Se Gesualdo fosse stato veramente un genio avrebbe gestito l'affare con ben altro stile. Lui non amava la moglie e sappiamo bene che a quei tempi i matrimoni erano solo contratti d'affari e quindi tanto valeva cercare una soluzione alternativa.
Il mio concetto di genio è evidentemente molto lontano da quello comunemente accettato e che non tiene conto della scissione.
Gesualdo si avvalse poi delle sue conoscenze altolocate per salvarsi la pelle e qualche anno più tardi convolò a nuove nozze (sempre d'interesse ovviamente) con Eleonora d'Este.
La musica di Gesualdo è, a mio avviso, pesantissima, cupa, colma di una dissonanza cerebrale e contorta. Se mi si passa il salto temporale posso dire che è quanto ci sia di più diametralmente opposto all'arte di Mozart.

lunedì 4 giugno 2012

L'arte di ignorare la povertà



"I Pascoli del Cielo" è il libro che rese famoso Steinbeck a livello internazionale. Sono un insieme di racconti ambientati in una terra che porta, appunto, quel nome.  Sono tutti bellissimi ma ne ricordo uno che, mentre lo leggevo, mi riempiva di uno struggimento indescrivibile. 
E' il VI capitolo, dove parla di Junius Maltby e di suo figlio Robert Louis (in onore di Stevenson) detto Robbie.
Riporto solo un breve stralcio in cui il consiglio scolastico decide di regalare degli abiti nuovi a Robbie, che andava in giro libero, scalzo, con gli abiti laceri e spettinato (come suo padre d'altronde). La maestra si oppone a questo regalo per difendere il ragazzo ma senza risultato, e quindi lui viene invitato ad aprire il pacco.
Subito dopo arrossisce e scappa.

La signora Munroe (che aveva acquistato gli abiti) si rivolse, tutta sconcertata, all'insegnante
"Che gli è successo?"
"Credo che sia rimasto imbarazzato" rispose la signorina Morgan (l'insegnante).
"Ma perchè dovrebbe esser rimasto imbarazzato? Noi siamo stati gentili con lui."
La signorina Morgan cercò di spiegare, e s'irritò un poco nel tentativo.
"Io credo, vedete" disse "ch'egli non sapesse di essere povero, fino a un minuto fa."

giovedì 31 maggio 2012

discanto in bicicletta



A dire il vero stavo googlando in cerca di qualche notizia in più su Walter Odington, un importantissimo musicista del XIV secolo che introdusse l'intervallo di terza come consonanza. Credo che tutto derivasse dal discanto per terze in uso nella musica popolare inglese, una vera meraviglia. Ne parlai anche altrove, perchè a me l'intervallo di terza, soprattutto minore, mi piace abbestia, ci composi pure un piccolo saggio alla scuola di musica di Fiesole.
Però googlando si trovano connubi veramente strani ed io mi sono imbattuto in un video per ciclisti (ce n'è più d'uno). Toh, mi son detto, questo lo pubblico per mandare un saluto. In gergo li chiamavamo segnali ed era divertente, anche se, a dire il vero, il "segnale" era di solito una parola o una frase, non un video. Poi, non so perchè, mi è tornata in mente una filastrocca dei tempi delle medie, inventata durante una incomprensibile lezione di matematica. Esprime il senso di smarrimento di fronte a quei numeri ed a quei segni strani che la prof. scriveva sulla lavagna. L'ho appena modificata, appena appena, ma così mi torna a pennello.
3per8 un franco e venti, il 3 nel due un c'è mai stato, una serpe in ginocchioni e una volpe in bicicletta.
No, non sto dando i numeri, cerco soltanto di esprimere l'inesprimibile, fidatevi.

martedì 22 maggio 2012

Ceppicone e i problemi del PILu


Interessantissima iniziativa (Leggi qui) quella di sostituire al P.I.L. (prodotto interno lordo) il F.I.L. (felicità interna lorda).
Ultimamente osservo le discussioni sullo spread, sulla crescita economica, sul debito pubblico e sull'andamento dei mercati finanziari da un'angolazione assai diversa da quella dei comuni media. Da tempo considero il denaro una falsità in circolazione, da tempo so che il debito pubblico è uno schifoso inganno che imprigiona i governi in un sistema creato ad arte dalle banche per spremere a dovere i cittadini-sudditi. Ma sarà un boomerang o forse, purtroppo, una bomba ad orologeria che travolgerà economicamente (come già accade) vittime innocenti.
Ho anche già scritto da qualche parte che chi invoca la "legge di mercato" è paragonabile ad un prete che invoca la legge divina e che la crescita deve rapportarsi ad un mondo finito e rispettarlo.
Ma prima di tutto occorre un nuovo umanesimo.
Pare che pochi se ne rendano conto e continuano ad accettare il sistema pensando che non ci sia alternativa.
Si sbagliano per carenza di conoscenze o per pigrizia mentale.
Compaiono progetti parzialmente condivisibili (tipo il Venus di Zeitgeist) ma gratta gratta mi accorgo che il vero problema non riescono a sviscerarlo, facendo lo stesso errore che fece Marx (che mi perdoni), pensando che basti liberare gli esseri umani dalla schiavitù del lavoro e del denaro per renderli felici (come dire che esiste solo la realtà materiale). Di certo staranno meglio, non lo nego, ma la realizzazione umana passa attraverso un lavoro di ricerca e di approfondimento che non può limitarsi alle condizioni materiali, occorre capire come funziona la mente umana, altrimenti buttiamo fuori dalla porta un problema per vederlo rientrare dalla finestra, magari accompagnato dal prete di turno.
L'essere umano NON funziona come vogliono i mercati e le banche, tantomeno come vogliono le religioni e le Chiese. Al più può essere ad essi sottomesso. 
Siccome però non ho voglia di scrivere qualcosa su un argomento che altri trattano assai meglio di me, e non intendo insegnare niente a nessuno, voglio dedicare questo post a Ceppicone (che come ho detto altrove per fargli il cappello ci vuole un ombrellone) per dare un mio modestissimo contributo al F.I.L.
Fra noi due c'è una cordiale antipatia, ma in segno di lealtà pubblico due foto che lo ritraggono.


Qui è indeciso sulla strategia da intraprendere per riuscire a scoparsi Mota che però non gliela vuole dare, non c'è storia, è brutto, prepotente e stupido. Ma lui non si rassegna, penso si sia convinto che la persevaranza prima o poi paghi, o forse spera che lei gliela conceda per pietà o per sfinimento (che illuso). Ma Mota è irremovibile, decisa e sicura, evidentemente ha un'immagine interna di gatto maschio alla quale Ceppicone proprio non corrisponde.

Lo vediamo mentre rasenta svelto il muretto del ruscello, pur sapendo che m'incazzo come una biscia se lo pesco a rompere le scatole a Mota, che in questi ultimi tempi si è fatta davvero una bella signorina.
Certo che se lei si decidesse a darla a qualcuno le cose andrebbero a posto da sole, ché qui i pretendenti iniziano ad affollare un po' troppo il mio giardino e oltretutto Mota non è nemmeno mia, fra lei e me c'è solamente una certa affinità elettiva, mi cerca, si strofina, fa le fusa, entra in casa, si accomoda sulla poltrona, mi segue ovunque, dio bono, mica mi starà facendo la corte?
E se lei fosse vittima di un sortilegio? Se sotto il suo aspetto di gatta si celasse una fanciulla? E che dire se invece il sortilegio lo avessi subito io e dietro il mio aspetto di uomo si celasse quello di un gatto? In effetti vado matto per il pesce, adoro il caldo e le comodità, all'occorrenza so anche essere ruffiano. Ho perduto un po' di agilità, questo è vero, ma è colpa degli anni e della vita sedentaria, questa estate mi rimetterò in sesto nuotando e facendo delle belle camminate, lo prometto alle lonzine che a mo' di salvagente si affacciano indecorosamente sopra la cintura dei pantaloni (chissà poi perchè solo lì).
Spero soltanto che, dovendo ritornare gatto, non abbia ad assumere l'aspetto di Ceppicone, sarebbe una vera sfiga.
Intanto ho pensato di correggere il nome di Mota (ora è pulita ma quando arrivò era coperta di fango) scrivendolo Motha, che è il nome indiano di un'erba per uso officinale (Cyperus rotundus), ma in realtà lo scrivo così perchè rende meglio la pronuncia fiorentina di mota, ché le t le strascichiamo come le penne nel sugo.
Ceppicone invece è incorreggibile e resta Ceppicone.
Le banche anche (ma cosa c'è l'eco?).

lunedì 14 maggio 2012

Paint it Black




Domenica ero sotto al mio nuovo pergolato e stavo dipingendo con una vernice protettiva la struttura del tavolo, ricavata da cinque formelle in ferro lavorato che componevano la vecchia e arrugginita porta della mia casa che, come ho detto altrove, una volta era una piccolissima chiesina. Verniciare è abbastanza noioso ma lascia la mente libera ed io ascoltavo radio3, che di solito è l'unica radio ascoltabile, sperando di sentire qualcosa di decente. Purtroppo trasmettevano "Uomini e profeti", un programma sulla Bibbia, che mi sono sorbito perché non sapevo dove appoggiare il pennello gocciolante per andare a spegnere la radio. Parlavano di un non so quale Vangelo e l'intervistato, un esperto teologo, ad un certo punto ha detto che a quei tempi c'erano manifestazioni di "posseduti" che oggi non esiteremmo a chiamare persone disturbate. Strano che non si sia posto la domanda se anche il protagonista dei Vangeli (ammesso che sia esistito) non lo sia stato. Ma la cosa interessantissima, alla luce del mio precedente post, è che il teologo diceva che a quei tempi (solo?) credevano che il male fosse opera del Demonio, mentre oggi sappiamo che quelle persone verrebbero "curate" da uno psichiatra. Però, in questo discorso apparentemente sano, ha detto che le malattie sono comunque una emanazione del Demonio, ossia, dobbiamo dedurre, che non esistono le malattie ma esiste il Male con la M maiuscola.
Io un discorso più schizofrenogeno di questo non l'ho mai sentito.
Vabbè, almeno la verniciatura stava venendo bene ed ero quasi al termine del mio lavoro quando finalmente è finita anche la trasmissione.
Cosa trasmetteranno adesso mi sono chiesto?
Ah bene, il giornale radio.
Prima notizia: il Papa è ad Arezzo ed il Primo Ministro Monti a riceverlo.
Volevo pulire il pennello sulla radio e dipingerla di nero ferro, pensando al titolo di una vecchia canzone dei Rolling Stones: Paint it black!

mercoledì 9 maggio 2012

Astianatte, riflessioni di nicchia




Il suo vero nome non lo conosco ma ricordo che tutti lo chiamavano Astianatte e sembrava un ragazzo normale. A quei tempi io avevo tredici anni, lui forse due o tre più di me. Continuai a vederlo in giro per qualche tempo, ma ci conoscevamo solo di vista, niente di più.
Poi non l'ho più incontrato.
Due anni fa l'ho visto passare, carico di tempo e di psicofarmaci, il primo lo ha incanutito, i secondi lo hanno appesantito, nella mole, enorme, e nella tipica andatura a spalle curve e braccia penzoloni, che non oscillano ma restano immobili lungo i fianchi, coi piedi strascicati come quelli di un incallito alcolista, lo sguardo indescrivibile, con quella particolarissima luce che contraddistingue lo schizofrenico.
Non mi ha riconosciuto, troppo imbottito di farmaci per avere una memoria integra, o forse sono invecchiato troppo anche io, ma dopo qualche giorno che lo incontravo lungo il marciapiede ha iniziato a rivolgersi a me amichevolmente. Dapprima se ne uscì dicendo: Toh, guarda un pochino, c'è Davide Riondino! Evidentemente ravvisava in me una qualche somiglianza con l'attore toscano. Poi, nei giorni successivi e visto che non mi offendevo, iniziò a fare qualche battuta sulla politica, cercando in me uno spettatore per le sue stravaganti performance, tutte scene riprese da qualche vecchio film tipo Berlinguer ti voglio bene o roba simile. Talvolta lo incontro sul lungarno e rischio di investirlo perchè d'un tratto lui scende dal marciapiede e si fa incontro alle auto facendo ironicamente (?) il saluto fascista. Bisogna stare attenti perchè sono raptus improvvisi, una volta vidi nello specchietto che l'auto dietro di me manca poco faceva un brutto incidente per scansarlo. Lui poi si calma e riprende la sua andatura.
Quando lo vedo camminare mi ritorna in mente un film piuttosto sconosciuto di Reygadas, Battaglia nel cielo, in cui c'è una perfetta rappresentazione della dinamica che fa emergere la schizofrenia.
Povero Astianatte, o come diavolo si chiama, non so se e quanto sia pericoloso, ma so per certo che ha contribuito alla ricchezza delle case farmaceutiche, che non curano niente, intontiscono e basta. Ormai è troppo vecchio e cronicizzato per ipotizzare una possibilità di cura, ma quando era giovane forse...
Questo post lo scrivo per lui, anche se non lo leggerà mai.
Anni fa fui molto colpito dalle parole di un grande medico, il quale disse che pochissimi avevano veramente tentato la cura della malattia mentale, al massimo c'era stata una generica proposizione di prendersi cura, oppure degli assurdi e folli tentativi di curare una malattia del pensiero come se fosse una malattia d'organo: lobotomizzando.
Perchè per curare la malattia mentale occorre occuparsi del pensiero, della nascita e della storia del pensiero, andando a scoprire quando, come e perchè ha iniziato ad ammalarsi. Perchè non viene mai detto che in realtà il cervello non si ammala mai e ingannano equiparando il malato mentale al cerebropatico o ad un intossicato.
Ma gratta gratta si scopre che dai filosofi agli scienziati tutti credono che il pensiero derivi da un Dio.
Il grande medico si accorse che c'era una malattia molto grave nella nostra stessa cultura, da millenni, e che per curare la malattia mentale non si poteva prescindere dal rifiuto di quella cultura, delle sue credenze, cristianesimo in testa, ma anche dell'illuminismo, che non aveva certo aiutato, e persino del comunismo. La cultura sessantottina poi sposò un'idea di libertà senza freni, in una sacrosanta rivolta contro il perbenismo cattocoatto, ma si dimenticò di approfondire la ricerca sull'identità umana e sul significato della parola libertà e (forse), senza avvedersene (?), finì in un vuoto esistenziale che condusse molte persone alla droga, al terrorismo o alla reinfetazione in un sistema a circuito chiuso.
La pazzia è un modo di essere, dicevano gli esistenzialisti, senza rendersi conto che così dicendo negavano l'esistenza della malattia mentale. La voglia di essere più umani nei confronti dei poveri pazzi fece chiudere i manicomi-lager, ma portò i manicomi nelle famiglie, perchè non era stata trovata nessuna cura per la malattia mentale, l'avevano semplicemente fatta sparire chiamandola disturbo bipolare o genericamente disagio psichico. E la maggior parte dei matti che vennero fatti uscire dai manicomi morì nel giro di pochi anni, chi sotto un'auto, chi sotto ad un treno, chi di stenti o d'inedia. La cultura poi ci mette del suo, dato che da millenni continua a sostenere la menzogna che vuole il Male connaturato all'essere umano. Retaggio cristiano o greco cristiano, perchè per i greci dentro l'uomo c'era l'animale e solo la ragione poteva sconfiggerlo. Ma la ragione non ha mai sconfitto nè curato la malattia mentale, lo ripeto sempre: i nazisti erano razionalissimi.
Dove cercare allora un'idea di sanità primigenia per potersi liberare dai falsi pensieri sull'identità umana e superare la falsa identità della ragione?
E' anche una questione di lotta politica.
Forse era nel giusto quel grande medico, tanto infamato e bistrattato dalla cultura cattofreudiana o postsessantottina che imperversa sui media, quando diceva che occorre scoprire la nascita del pensiero dalla fisiologia umana, occorre comprendere che l'umano ha una peculiarità che gli animali non hanno e che non consiste solo nella ragione ma prima di tutto nella capacità di immaginare, occorre scoprire che l'essere umano nasce sano e che se si ammala è a causa di una noxa esterna, ossia di un altro pensiero malato ed anaffettivo che non lo riconosce come essere umano perchè ha perduto nell'astrattezza la propria umanità.
La nostra cultura continua a vedere il neonato come una tavoletta di cera da plasmare, e lo plasma violentandolo. La nostra cultura non vede la differenza fra un feto ed un neonato negando così la dinamica della nascita.
Forse occorreva anche denunciare la pazzia latente di certi cosiddetti normali, degli obbedienti, delle marionette, dei diligenti e ordinati, degli indifferenti.
Si chiedeva Pessoa: Dove sono i vivi?
Astianatte porta a spasso la sua pazzia lungo i marciapiedi, per lui ormai non c'è più speranza, possiamo solo prenderci cura di lui e lasciare che reciti la sua pantomima, dietro la quale però si vede almeno la sua sincerità nel manifestarsi come pazzo.
Qualcuno invece è pazzo e delinquente ma si maschera da irreprensibile e integerrimo cittadino.

sabato 5 maggio 2012

intrecci





A volte capitano coincidenze che chiamerei piuttosto risonanze e il mio cervellino le usa per ricamare una filigrana di fantasie forse sbilenche, ma utili per popolare il mondo di affetti. Sto cucendo insieme il post col raccontino di Dirio (quello sui nomi strani) con quello sul telescopio, perchè il giovane che è venuto giù fin da Torino per comprare il mio dobson si è fatto accompagnare dalla sua bella ragazza. Quando si è presentata ha pensato bene di ripetermi due volte il suo strano e originale nome, dal suono orientaleggiante, perchè evidentemente la mia faccia doveva aver assunto un'espressione incerta e perplessa. Non dirò quel nome per rispetto della sua privacy, ma quando ho scritto una mail al suo compagno per sapere come andava col mio ex telescopio, nel salutarlo ho tentato di inviare un saluto anche alla sua compagna, ma mi sono reso conto che non sapevo come si scriveva quel nome e quindi ho tentato, sbagliando, di scriverlo come lo avevo sentito. Lui, comprensivo e gentile, mi ha risposto scrivendo il nome nel modo corretto ed ha aggiunto che questo nome lo aveva scelto il padre, appassionato lettore di Urania, prendendolo da un racconto che gli era piaciuto.
Dio bono, queste sono perle! Urania, la fantascienza (che a volte mi piace ma citando una frase del film Betty Blu potrei chiamarla Tanta Scemenza), un babbo entusiasta e un po' stralunato, l'astrofilia, il mio dobson che parte per il nord e a cavalcioni su di lui una bella coppia di innamorati. Chissà che belle scopate si faranno sotto il cielo d'estate con la scusa di fare "star hopping" sulla Via Lattea, mi sembra assai meglio della collezione di farfalle.
E il dobson a reggere il lume...

lunedì 30 aprile 2012

Valzer fra le stelle



Ruhevoll: Sì, ho venduto il mio poderoso dobson, non ballerò più il valzer con lui, mi mancherà il suo volteggiare fluido e preciso fra le costellazioni, il suo puntamento nitido ed il suo gigantesco occhio, sensibilissimo, magico, notturno.
Blogghino: Scusa eh, ma cos'è un dobson?
R: Un telescopio
B: E perché si chiama dobson?
R: Perché lo inventò John Dobson.
B: Apperò, ma scusa cosa avrebbe inventato il signor Dobson?
R: Ha inventato la rocker box al posto del treppiede e ha insegnato agli astrofili a non buttare via soldi in costosissime montature, oltre che a farsi un tubo ottico newtoniano con il minimo di spesa.
B: Parli difficile, raccontami meglio.
R: Oh, non aspettavo altro che questa domanda. Dunque, blogghino mio, devi sapere che esistono sostanzialmente due tipi di telescopio, uno è il classico galileiano, eccellente per definizione ma estremamente lungo e costoso, perchè devi sapere che quello che conta, quando si guarda il cielo notturno, non sono solo gli ingrandimenti ma, soprattutto, la capacità di "raccogliere" luce e la quantità di luce raccolta dipende dal diametro del telescopio. Praticamente il telescopio si comporta come la nostra pupilla, più è buio e più deve dilatarsi per vedere qualcosa. Una lente di un galileiano (propriamente detto rifrattore) cattura direttamente la luce ma costa un'ira di Dio. E allora che si fa? Si va dal signor Newton e si usa il telescopio che da lui ha preso il nome, e si risparmiano un sacco di soldi perchè al posto della lente ha due specchi (che costano assai meno) ed oltretutto dimezzano la lunghezza del telescopio. In pratica se un telescopio galileiano di quindici centimetri di diametro (è il diametro che conta per catturare la luce) costa tremila euro, per non parlare della costosissima montatura che ci vuole per tenerlo sù, un telescopio newtoniano di pari diametro costa circa trecento euro.
B: Cazzo!
R: Ecco che il signor Dobson pensò bene di risparmiare anche sulla montatura inventandosene una di legno compensato, una sorta di scatolone che fa girare il telescopio a trecentosessanta gradi oltre ad alzarlo ed abbassarlo dall'orizzonte fino allo zenith e concentrare tutta la spesa sulle dimensioni dello specchio. Il mio dobson aveva uno specchio di quaranta centimetri, era alto due metri ma era un vero pozzo di luce, anzi una piscina! Tutto il resto, se si escludono gli oculari per ottenere gli ingrandimenti ed il campo visivo appropriato, non vale più di un centinaio di euro. Nessuna ricerca computerizzata degli oggetti celesti, quella è roba da fannulloni, le stelle o sai dove trovarle o vai a letto.
B: Dio bono, e cosa si vede con quell'aggeggio?
R: Soprattutto il cielo profondo, ossia tutte quelle cose debolissime che mai ti aspetteresti di vedere con i tuoi occhi. Le galassie, i resti delle supernovae, i mitici globular cluster, gli open cluster, le nebulose planetarie, insomma roba fina, mica i soliti pianetucci dietro l'angolo.
B: E perchè lo hai venduto?
R: Si stava sciupando a causa dell'eccessiva umidità nella casa dove alloggiava, sai, due mesi fa si è schiantato un tubo per colpa del ghiaccio e i tremila litri della cisterna hanno pensato bene di fare la doccia a metà della casa.
B: Porc...
R: Dio!!!
B: Ma ora come fai?
R: Ho il mio Makkino, che è un altro aggeggio ganzissimo inventato dal signor Maksutov su uno schema del signor Cassegrain. In pratica hai un telescopio potentissimo e precisissimo in appena venti centimetri di lunghezza. Non ci vedi i globular cluster, ma la Luna e i pianeti te li bevi a garganella. Poi, quando l'umidità sarà evaporata vedrò cosa fare, senza M17 o M42 non si può stare più di tanto, mancano come amanti perdute.
B: Sei un astrofilo allora?
R: No, un coglione sognatore, che si annoia se non sogna. Nel frattempo ho preparato delle talee di glicine per il pergolato che ho appena finito di costruire nella mia nuova casetta, che non chiamo casetta ma chiesina, perché in effetti era una microscopica chiesina del 1785, andata in rovina (per fortuna) e restaurata per usi mooolto meno spirituali e assai più goderecci. Ma di questo forse parlerò un altra volta, trovo interessante il rapporto che si ha con la casa, ma soprattutto con l'idea che si ha della casa.
B: Bene, per oggi sei già stato abbastanza logorroico ed egocentico, stattene zitto e cura le tue talee o te ne faccio una io di talee, e di quelle che non ricrescono... 

giovedì 19 aprile 2012

Cucù



Non sapendo cosa cavolo scrivere e notando che il blogghino langue mi esprimo col verso del cuculo che fra poco si farà sentire (eccome) nei boschi e nei giardini. Ce n'era uno particolarmente insistente con il quale l'anno scorso ho intrattenuto un serrato dialogo, una sorta di botta e risposta a forza di cucù. Ovviamente lui ha avuto la meglio perché dopo un po' io mi sono scocciato, soprattutto per mancanza di argomentazioni valide, ed ho abbandonato il campo lasciandolo in pace a corteggiare le "pischelle". Ma, ora che ci penso, il suo è un richiamo d'amore oppure vuole giocare a nascondino? E poi il fatto che non fa il nido la dice lunga sul suo dongiovannismo, è come se si facesse prestare un bell'appartamento da qualcuno e poi lo spacciasse come suo per farsi bello. Che figlio di puttana! Eppure le femmine ci cascano. O sono le femmine a scippare gli appartamenti altrui? Non so una beata mazza di ornitologia!
Ecco che mentre scrivo questa scemenza mi viene in mente un film che ho visto tempo fa e di cui non ricordo il titolo (Alzheimer? No, questo non è il titolo ma un'ipotesi sulla mia smemoratezza). Il film era ganzo perchè c'era un ragazzo che metteva dei cartellini pubblicitari sulle porte di vari appartamenti, il giorno dopo passava a vedere quali erano stati tolti ed entrava negli appartamenti che invece avevano ancora la locandina appesa alla maniglia. Non rubava niente, ci dormiva e teneva in ordine, scattava un po' di foto, annaffiava eventuali piante, riparava oggetti eventualmente guasti e poi se ne andava a cercare un altro appartamento per le notti succcessive. Nel film c'è anche una bella storia d'amore. Ah, ecco il titolo, m'è tornato in mente ripensando ad una scena con una mazza da golf: Ferro 3. Lo consiglio, è molto raffinato, il protagonista non parla mai e così nemmeno la bella compagna che si unisce a lui nell'avventura.
Che il mio blogghino stia imparando l'arte del silenzio?

sabato 7 aprile 2012

Piena solidarietà a Paola Musu


Non posso resistere alla tentazione di sottoscrivere in pieno la denuncia di Paola Musu contro i vertici dello Stato.
E non mi lascio sfuggire una fantasia che mette in relazione il coraggio e il senso di giustizia di questa donna sarda con il coraggio ed il senso di giustizia di un'altra grandissima donna sarda di molti secoli addietro, Eleonora D'Arborea.
E' talmente grande la mia solidarietà verso queste donne che davvero vorrei che il nostro paese fosse governato da persone come loro, fiere nel difendere i veri diritti e la libertà di un popolo sovrano, un popolo che la BCE ed altri altisonanti usurai (suoi sicari) stanno depredando della possibilità di qualsiasi diritto di scelta.
Ritengo un dovere di ogni libero cittadino quello di sostenere questa denuncia, affinché possiamo riappropriarci dei nostri inalienabili diritti.

venerdì 30 marzo 2012

a proposito di nomi...



C'è un tipo qui a Firenze che si chiama come me e per di più suona e scrive canzoni. Alcuni che non mi conoscono personalmente mi hanno scambiato per lui. Che palle l'omonimia, io mica scrivo quel genere di musica. Allora, per far contenta un'amica che mi ha chiesto di ripubblicarlo, riciclo un raccontino che mi divertii ad inventare qualche anno fa. So bene che è un po' lungo e non ho certo la pretesa che qualcuno perda il suo tempo a leggerlo, ma siccome il racconto s'impernia sull'originalità dei nomi mi piace l'idea di metterlo sul blogghino.


Dirio e la novella a braccio (ed io abbraccio la Novella)



Dirio, si chiama Dirio! Disse incazzato all'impiegato comunale che non ne voleva sapere di accettare quel nome.
Dario, dio bono, Dario! Rispondeva altrettanto infervorato l'impiegato comunale, grasso, rosso e sudato dentro una camicia che sembrava persa in una piscina.
Alle una e zero cinque del sedici luglio millenovecentosessantatre una disputa aveva bloccato l'ufficio comunale del paese di ****!
Non c'era verso di venirne a capo.
Possibile che lei mi debba far perder tempo con le sue idee! Continuava a sbraitare da dentro la piscina l'impiegato.
Possibile che io non possa chiamare i'mi' figliolo come mi pare! Che l'ha fatto lei? No! E allora scriva e la faccia finita o chiamo il sindaco, tanto lo so che l'è di sopra a farsi l'Argia prima di andare a desinare!
A volte i piccoli paesi sono un microcosmo delle meraviglie. Per alchimie inspiegabili vi si ritrovano i nomi più strani, imposti dai genitori ai figli con l'intento di celebrarne già il futuro, meticolosamente immaginato e disegnato in un tortuoso labirinto di sinapsi che porterà nel tempo a venire le sue nefaste o caritatevoli conseguenze sui poveri diavoli che dovranno portare quei nomi.
Argia, poveraccia, togli la g, metti una p ed ecco fatto il danno. Eppure la dolcissima proprietaria di quel disastro fonetico era effettivamente nell'ufficio del sindaco, intenta in una intima e delicata operazione che decenni più tardi avrebbe destabilizzato nientepopodimenochè la Casa bianca. L'Argia... che solo superficialmente e malevolmente qualcuno avrebbe potuto identificare come l'antesignana delle stagiste americane in un paesino della campagna toscana, nel millenovecentosessantatre alle una e zero cinque del sedici di luglio.
Nello stesso momento Olinto Brachi, detto Polvere, tentava di lanciare verso il futuro il suo primogenito, Dirio! Non Dario! Già ci sono gli scambi delle culle, vogliamo anche aggiungerci quello dei nomi? O vogliamo far battezzare i nostri figlioli da un coatto impiegato comunale che per di più opera dentro una piscina? No! Polvere questo non lo poteva sopportare, Dirio era i' su' figliolo e avrebbe difeso il suo nome con la propria vita. Aveva passato notti insonni a vegliare la moglie durante la gravidanza, timoroso che la Gilda potesse far sognacci a causa del suo russare sismograficamente rilevante. E in quelle notti aveva pensato a quella creatura che stava per venire al mondo, il suo figliolo, mica uno qualunque. Dirio! Ripercorrere le tappe del pensiero che spinsero Polvere a quella sintesi, a quella fusione, a quel capolavoro dell'umana ricerca del sublime è impossibile. Per quanto ignorante boscaiolo Polvere era un attento ascoltatore dei discorsi che la sera gli uomini facevano al bar Centrale del suo paesino, e già il fatto che si chiamasse bar Centrale in un paesino di mille anime la dice lunga, ma queste sottigliezze non sfiorano e non possono sfiorare i pensieri di un novello padre. In quelle notti insonni Polvere aveva elaborato una splendida fusione fonetica di elementi quali Sirio, fulgida stella che spunta nel cielo invernale, con iridescente, parola, quest'ultima, di cui Polvere non era certo di aver colto il significato ma, non avendo ancora l'udito devastato dalla motosega, ne amava il suono evocante i ruscelli montani all'alba, quando la luce radente scintilla in una miriade di colori  carezzando l'acqua che sgorga dalle sorgenti.
Intanto l'Argia "la bocca sollevò dal fero pasto". Non la forbì al capo del peccator perchè peccato non c'era, nè profitto alcuno, vuoi economico o d'avanzamento... ché non siamo in America, siamo in un paesino di mille anime sull'appennino toscano. L'Argia era una donna sola, libera, passionale, sincera, devota alla sua missione di assistente tuttofare del comune. Faceva le pulizie negli uffici e provvedeva a cucinare per il primo cittadino, di cui aveva una certa ammirazione, ritenendolo uomo colto, forte e nobilmente chiuso nella sua vedovanza, che però non gli impediva certo di farsi sbottonare la patta dei pantaloni.
Dunque, mentre il sindaco sorrideva riconoscente all'Argia pregustando già il pranzetto che l'aspettava, sentì giungere dal sottostante ufficio un gran vociare. Non era possibile che a quell'ora e con quel caldo ci fosse da perder tempo con qualche contadino che veniva a sbraitare contro le insolvenze comunali, magari per dirgli che l'acqua per irrigare il suo orto era più importante che per lavare i pavimenti... questi contadini! L'Argia si affacciò sull'uscio e se la filò portandosi via granate e cenci da dare in terra, il sindaco scese di sotto controllandosi i pantaloni.
Allora Sirio! Continuò imperterrito l'impiegato comunale mentre la piscina era al limite del traboccamento.
Guarda imbecille che vengo di là e ti tiro i' collo! Fece minaccioso il boscaiolo Olinto Brachi mostrando una mano nodosa e forte a quella massa d'acqua.
Il sindaco si avvicinò a Polvere e cercò di calmarlo, poi rivolto all'impiegato chiese ragguagli sul problema, dopodichè, resosi immediatamente conto dell'inutile controversia, incenerì il prolisso impiegato con uno sguardo colmo di risentimento per avergli impedito di essere già con i piedi sotto la tavola, a lui che alle una e quindici voleva desinare ed erano già le una e venti e tutti sanno che i tortelli al sugo di cinghiale non tollerano dilazioni, cazzo s'incollano! E quindi intimò al grondante ciccione di consegnare il certificato col nome richiesto da Polvere.
L'impiegato fece spallucce e scrisse nel documento quel nome che gli era già costato un ettolitro abbondante di sudore, ci sbattè con violenza risentita il timbro comunale e consegnò il foglio prima che si trasformasse in un impacco gocciolante. Polvere se ne andò vincitore di quella prima battaglia in difesa del buon nome del figlio, il sindaco corse dai suoi tortelli e l'impiegato finì di annegare in santa pace.
Pare che le giornate mescolino in sè vari aspetti della nostra vita, per quanto breve o lunga possa essere, e se sappiamo "ascoltare" bene quel che viviamo ci troveremo tesori su cui meditare.
Il sindaco gustava finalmente i suoi tortelli, fugate le ombre per le quisquilie fra l'impiegato e Polvere, tornava a rilassare i muscoli che si scioglievano come i tortelli in bocca, l'Argia aveva molti meriti in proposito. Generosa e ottima cuoca, esaudiva i desideri e i bisogni dell'uomo, senza imporre quel ricatto convenzionalmente chiamato matrimonio. Il sessantotto doveva ancora venire, ma covava persino lontano da Berkley, persino in un paesino di mille anime perduto nell'alta campagna toscana, e l'Argia era, come tutte le vere donne, luce di ogni rivoluzione, indipendente da qualsiasi ideologia, concretamente legata alla vita, ribelle ai dettami dei preti, laici o meno che fossero.
Il figlio di Polvere cresceva sano e ben allattato dalle colline odorose e colme di latte di mamma Gilda e Polvere intuiva che quell'amore avrebbe dato buoni frutti. Dirio, diceva fra sè il boscaiolo, un giorno verrai con me a vedere le sorgenti all'alba, e fra quelle colline avrai memoria di quelle che ti godi adesso. Polvere aveva l'animo poetico, aveva idee e immagini precise, e di conseguenza anche i nomi. Forse proprio per questo s'era inventato il nome del figlio, e non ci trovava nulla di strano in quel nome, anzi pensò che, se proprio lo doveva ammettere, non era più strano di altri, come quello dell'Argia ad esempio. E mentre pensava questo si domandò perchè la gente prendesse i nomi già fatti invece d'inventarli. Per onorare i morti? Per far sì che almeno nel nome un nonno o un bisnonno esistesse ancora sulla terra? Che sciocchezza! Che senso aveva chiamare Roberto il proprio figlio, che era individuo unico e irripetibile, e con quel nome renderlo un po' uguale a migliaia di Roberto in giro per il mondo? Che senso aveva legare al nome Roberto l'unicità che, udendo quel nome, quel suono, si sarebbe voltato rispondendo al richiamo. Vide le migliaia di Roberto voltarsi contemporaneamente al suono emesso, ma tutti diversi, e allora quale Roberto stava chiamando quella voce e quel suono? Quale Roberto avrebbe dovuto voltarsi a buon diritto, mentre tutti gli altri dovevano ignorare il richiamo? C'è poco da fare, Polvere era un indipendente per natura, un individualista, anche un po' lupo solitario ma non certo un asociale. Quello che cercava lui nelle persone era un po' quello che cercava l'Argia, ovvero l'autenticità, la presenza, l'affetto. In due parole l'essere umano. Quel suo lavoro fra i boschi gli permetteva di pensare, il suo era principalmente un impegno fisico, poiché al di là di tagliare per il verso giusto un albero e valutarne bene la direzione in cui poteva farlo cadere, il resto era fatica fisica, tanta fatica, che lui cercava di ignorare pensando.
Il pensiero di Polvere era concreto ma non banalmente materialistico, la sua fortuna era quella di non avere troppi ghirigori in testa e anche di non essersi lasciato confondere dai sottili veleni che si nascondono nelle pieghe di tanti discorsoni. Aveva studiato poco ma ci sono cose che non s'imparano, il modo di essere personale è connaturato al carattere ed il carattere è un fatto di nascita oltre che di buoni o cattivi rapporti, il cervello poi gli funzionava, eccome. Sapeva ascoltare, e se una cosa gli "suonava" la faceva entrare. Nonostante il suo ruvido lavoro aveva una sensibilità speciale. Una sera Polvere osservava la sua Gilda allattare Dirio. Seduta sul canto del fuoco avvolgeva tra le carnose braccia e i prosperosi seni il suo bambino. Si guardavano negli occhi, persi l'uno nell'altra, incantati in un dolce fluire di latte e immagini, di calore e affetto. Polvere pensò al fondersi di sostanza e colori negli occhi di Dirio. Vide forme indefinite, quasi un comporsi di bianche e morbide sculture in una creazione artistica. La sonnolenza chiudeva a poco a poco i suoi occhi di boscaiolo, ancora pieni di abeti e castagni, confondendosi col candore di quei seni, vagando con la memoria attraverso gli occhi del figlio per entrare in un sogno, un sogno di uomo.
Sentì mani calde carezzargli il volto, vide labbra sorridere ed aprirsi, poi i fianchi e il sesso di una donna e il desiderio di entrare in lei. Ed ecco che lei lo avvolgeva morbidamente dentro di sè e tutto sembrava un dialogo senza parole, un ascolto del corpo e degli occhi, un rispondere e un domandare, un latte invisibile che scorreva internamente, calmo, fino a dissolversi in un bagliore opalescente.
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L'Argia invece fu profondamente turbata da un episodio apparentemente di poca importanza, ossia un antipatico turista le aveva detto che il suo nome era uguale a quello di un ragno velenoso. Un ragno che si trovava in sardegna.
La sciagura si abbattè sul piccolo comune di ****, e soprattutto sulla sede del comune, e ancor di più sul sindaco e i suoi pranzetti, con preludio o gran finale a seconda delle circostanze.
Come la vita, che quando scorre felice fra le colline ci abitua ad un benessere a cui non si fa più caso, così il dirompente e devastante turbamento di tale equilibrio mise in esagerato subbuglio le anime poco avvezze a tali sconvolgimenti.
L'Argia entrò in depressione!
Piangeva in continuazione e trascurava i propri doveri e i propri piaceri, oltre a quelli del primo cittadino. In pochi giorni la polvere (minuscolo) invase la sede del comune, il sindaco si vide costretto a mangiare i panini del bar centrale, l'impiegato si ritrovò impiastricciato di laniccio che s'attaccava alla sua pelle come le piume al miele.
Si fece una riunione straordinaria, l'Argia andava curata!
Diffidenti, per tradizione, nei confronti delle nuove mode culturali, o forse sicuri che certe mode nascondono solenni prese in giro, i membri della giunta comunale decisero di rivolgersi al veterinario invece che allo psicoanalista. Del medico condotto poi avevano poca fiducia perchè non guariva mai nessuno con le sue medicine. A sua discolpa va precisato che i casi in contenzioso riguardavano vecchi novantenni o gente rimasta sotto un trattore. Insomma più che un medico ci sarebbe voluto un santone.
Il veterinario, uomo esperto e pratico, andò dall'Argia quasi come si va da una mucca, le palpò i seni, la guardò negli occhi, le dette una manata sulle cosce e disse: Argia, lei non è un ragno velenoso, ma una bella femmina sana e robusta, la si svaghi un pochino, prenda queste pasticche prima di andare a letto e non ci stia troppo a pensare, qui siamo in toscana e l'unico ragno velenoso che conosco l'è il volterranino.
L'Argia si calmò un pochino grazie alla sicurezza dell'uomo più che del medico degli animali, ma la sua stima per il sindaco calò drasticamente, dato che lui non aveva avuto la sensibilità di parlare con lei prima che col veterinario. Andò a casa e dormì.
La mattina dopo si svegliò di buon ora con spirito di ricerca e, fatto veramente insolito, entrò nella biblioteca del comune. Insolito non perchè vi entrasse, lo faceva regolarmente per spazzare e spolverare, ma perchè lo fece senza i ferri del mestiere. L'Argia voleva leggere! Trovò il dizionario enciclopedico e, con una certa lentezza, arrivò alla voce Volterra: cittadina toscana ecc. ecc. manufatti in alabastro ecc. ecc. di ragni non se ne parlava. Uscì risoluta e corse a casa a vestirsi per bene, si truccò, prese la borsa e andò alla fermata della corriera, destinazione Volterra, il più lungo viaggio della sua vita.
Se io sono un ragno e per giunta velenoso, voglio incontrare quello di volterra e sentire da lui come stanno le cose. Vaffanculo al veterinario e alla giunta comunale.
Volterra è bella, ma questa non è una guida turistica e chi scrive non è Saramago (nota polemica OT). Quando scese dalla corriera l'Argia entrò nel bar della piazzetta e chiese informazioni sul pericoloso ragno. Il barista, sciacquando i bicchieri, le disse che bisognava andare nei campi per trovarlo, e che era piccolino, con dei puntini rossi sulla schiena.
Occorre spiegare, ma sarà difficile, il percorso mentale dell'Argia. Era una donna talmente semplice e immediata, talmente onesta e ingenua che non poteva credere di essere davvero velenosa e sapeva in cuor suo che era stata solo una malignità della gente, oltre che di quel turista maledetto, quello sì che era stato velenoso, a chiamare un ragno con un nome di donna. Quando seppe del volterranino pensò ad un'altra ingiustizia, s'immaginò un pover'uomo perseguitato dal proprio nome e dalla maldicenza gratuita dei compaesani. Inventarsi l'esistenza di quell'uomo e identificarsi con lui fu un lampo ...e la cosa stava assumendo le caratteristiche di un delirio.
L'Argia andò per i campi.
Nelle pianure circostanti si raccoglievano i pomodori e quell'anno ce n'erano così in abbondanza che le ceste ricolme rimanevano a marcire in mezzo alle stoppie.
In uno di questi campi c'erano alcuni braccianti in pausa dopo il desinare. Un paio di loro scherzavano tirandosi dietro i pomodori sotto un sole accecante. Lei lo vide! La camicia bianca tempestata di macchie rosse sulla schiena. Il cuore le balzò in gola. Si sedette su un paracarro, all'ombra di un eucalipto, e rimase incantata nel vedere l'agilità e l'allegria dell'uomo.
Purtroppo alle donne non era consentito di muoversi liberamente (e non solo a quei tempi), tantomeno di sedersi su un paracarro lungo una statale senza essere scambiate per Collaboratrici (perchè di fatto collaborano) Ecologiche (niente è più naturale della loro merce) d'Intrattenimento (variabile di volta in volta in base al prezzo) , e la sua figura non sfuggì di certo ai braccianti in pausa. Due di essi le si avvicinarono con fare strafottente e iniziarono una trattativa a cui l'Argia non era per niente disposta. Ne nacque un tafferuglio dove una borsetta si abbatteva pesantemente sulla testa del più sfacciato dei due, mentre l'altro se la rideva aizzando l'Argia con apprezzamenti ben più pesanti della borsetta. Gli uomini sanno essere ignobili quanto sublimi. Sopraggiunse quello dalla camicia macchiata di rosso e mise al loro posto i due "bravi ragazzi". Invitò gentilmente l'Argia a sedersi di nuovo sul paracarro e si scusò per il comportamento dei suoi colleghi. Sarà stato per la colluttazione, per il caldo, per l'emozione, fatto sta che lei svenne fra le braccia del suo eroe e nell'incoscienza percepì quel forte odore di maschio.
Quando si riprese era distesa su una coperta, l'alto eucalipto la proteggeva dai raggi violenti del sole di luglio, un bel volto d'uomo, incorniciato dal cielo azzurro, la guardava in silenzio, il frinire delle cicale fu la colonna sonora del suo innamoramento.
Volterranino! Sussurò l'Argia in un anelito d'amore.
Mi chiamo Egisto. Rispose il bel volto sorridente.
Se il Canova avesse potuto vedere quella scena vi avrebbe riconosciuto il suo capolavoro.
L'Argia andò incontro a quelle labbra come in un sogno, il mondo sparì, e braccia sicure la circondarono, l'amore invase i campi assolati, fino al calar della sera.
Solo la gente veramente semplice è capace di vivere le cose senza coscienza, e i due neo amanti non ne ebbero, non si curarono del tempo, degli impegni o del ruolo sociale che non avevano, ricchi della libertà fatta del poco avere. Ma Egisto aveva una catena al collo, che la sera verso le otto cominciava a tirarlo, il permesso parlava chiaro, entro le otto doveva rientrare in carcere. L'Argia trasalì, stava per svenire una seconda volta ma l'idea che non ci sarebbero state braccia a sorreggerla la obbligò a resistere. Il volterranino era un carcerato e lei gliel'aveva data in assoluta fiducia, mascalzone, approfittare così della sua ingenuità.
Guarda che io son dentro al posto di un altro! Chiarì subito Egisto vedendola così pallida.
Bugiardo! Che vuoi continuare a ingannarmi? Singhiozzò col seno che sussultava impietosendo l'uomo.
Ascolta Argia, ascolta bene, te la racconto una volta sola la mia storia. E poi fai come tu vuoi!
Tre anni fa lavoravo l'alabastro insieme a mio fratello Ersilio. Le ordinazioni non ci mancavano e lui si decise a sposare la Fedora, comprare casa e metterla incinta. Poco prima che nascesse la creatura ci arriva un'ordinazione da un americano che diceva di voler comprare tutta la produzione, anzi ne voleva il doppio. Io e Ersilio ci si frega le mani e si butta i' cappello pell'aria, si comprano a chiodo nuovi macchinari, si disdicono le altre commissioni e ci si butta nel commercio internazionale. Dopo tre mesi Ersilio l'era babbo ma dell'americano nemmeno l'ombra. Ersilio perde i' capo, si fa infinocchiare da un usuraio e peggiora la situazione, dopo un mese gli deve il doppio di quanto ha avuto. Vengono in tre una sera e lo riempiono di botte, se entro una settimana non restituisce i soldi gli stuprano la moglie. Ersilio, ormai in balia di se stesso, fa una rapina alle poste,  ma poi si nasconde a casa mia, piange disperato, che la vita ormai se l'è bell'e giocata, ci vuol poco a rintracciare un bischero, soprattutto se fa una rapina con la seicento della ditta e la lascia davanti a casa mia. Non c'è tempo per pensare, lui è scemo, cieco, incapace, ma c'ha un figliolo e una moglie, io no. Mi sostituisco a lui, tanto col passamontagna nessuno lo aveva visto in faccia, vado dai carabinieri, restituisco i soldi e mi consegno al posto suo. M'è andata bene, sei mesi in gabbia ma dopo tre posso lavorare fuori durante il giorno. Lui ha venduto tutto, anche la casa, non ce l'ha fatta a denunciare l'usuraio, ora lavora l'alabastro come dipendente, e la su' moglie fa le pulizie, il bambino sta bene. Non li voglio più vedere.
Ora devo andare, mi manca un mese e mezzo e t'ho detto la verità. Addio Argia.
Egisto rientrò in carcere e l'Argia guarì dalla depressione. Se il volterranino era così bello e in balia della vita, anche lei poteva accettarsi per come era, anzi, ora aveva una perla in più nel cuore.
Tornò al suo paese, dove erano tutti in pensiero per lei, ma lessero nel suo volto una bellezza che rassicurò chi le voleva bene davvero, mentre fu motivo di maldicenze per chi non aveva mai fatto un "viaggio" come il suo (ed erano in tanti, soprattutto quelli legati dai lacci dell'ipocrita morale cattolica). Sparare giudizi a raffica su ciò che non si riesce a comprendere è la prerogativa dei cretini e dei bigotti, un modo di esorcizzare le proprie brutture alienandole negli altri. Per il sudicio tutti sono sporchi.


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Il carcere è un luogo dell'animo oltre che un edificio per raccogliere gente sbandata. Egisto, quando la sera rientrava in cella, prima ancora di varcarne la soglia e di sentire lo scatto del cancello, si era già rinchiuso in se stesso, lasciando fuori solo la coscienza che gli permetteva di svolgere le normali incombenze di quell'esistenza assurda. Sentiva e vedeva le mura di quell'edificio come le braccia di un tutore stupido, eletto in quel ruolo dall'altrettanta stupidità degli uomini che lo riempivano. Tutto era stupido. Puoi insegnare ed educare, punendolo per i suoi errori, un cane ma non un uomo. Un cane "sbaglia" perchè è un cane e non può sapere quello che vuole da lui un uomo. Quindi è anche errato dire che "sbaglia". Un uomo no, sa di sbagliare, sa benissimo quando delinque, e non serve insegnarglielo come se fosse un cane. Lui sbaglia perchè vuole sbagliare, per cui a rigor di logica è un matto. Oppure "sbaglia" per necessità, perchè non ha modo di agire altrimenti per sopravvivere, ed allora la colpa del suo sbaglio è in chi lo mette nell'impossibilità di agire diversamente.
La cella era al buio, Egisto sentiva solo il respiro degli altri detenuti, i gorgoglii di qualche stomaco, il suono di qualche pagina voltata al lume di una piccola pila, in un'altra cella, in un altro microcosmo come quello che lo ospitava da cinque mesi e ventinove giorni. Domani sarebbe uscito, l'alba giunse lentamente, tutto iniziò a svegliarsi, ma lui non si era mai addormentato.
Dalla piazzetta di Volterra partì una corriera che andava verso Colle val d'Elsa e da lì c'erano coincidenze per Firenze o Siena o altri paesi. Egisto andò a cercare l'Argia, la sua ultima coincidenza.
Sceso dalla corriera si guardò intorno come se stesse guardandosi allo specchio, vedeva in quel paesino il presente della propria vita. Poche case, belle pietre, piccoli e stonati tentativi di modernità, uomini col cappello, uomini senza cappello, poche donne in giro, qualcuna col fazzoletto in testa. Ma che ci era venuto a fare? Lui non era di lì, quella non era la sua storia. E quale era allora la sua storia? Quella rovinata dal carcere e dalla pazzia del fratello? Quella lasciata a Volterra e che non poteva più riannodare? Cos'è la storia, una memoria? Lui non la voleva più quella memoria, ma quella gli si era piantata addosso senza che lui glielo avesse chiesto, senza dargli possibilità di scelta. Cosa avrebbe potuto scegliere? Di mandare il fratello in galera e rovinare una famiglia per sempre? E come avrebbe affrontato quella scelta, fregandosene? Con l'esame obbiettivo e il distacco necessario? Belle parole. Ma anche bella presunzione la sua, pensare di essere così libero da poter ricostruire la sua vita ex novo. Chissà come ,senza gli affetti, senza un filo. L'unico filo che aveva fra le mani era il ricordo dell'Argia. L'immagine di quel pomeriggio di luglio non lo aveva mai abbandonato, si era depositata in lui come una speranza, che scambiava per certezza.
Entrò nel bar centrale e chiese di lei, dissero che era in comune. A volte si coglie un senso strano nelle parole, accade che impercettibili risonanze, vagando nella mente, facciano comparire immagini insolite, non implicitamente connesse alle parole udite. L'Argia in comune, in comune con chi, comune a chi? Un fremito percorse la schiena di Egisto mentre attraversava la piazza diretto verso la sede di quel "comune". Varcò la soglia mentre il fiato si faceva stranamente corto, gli occhi correvano per ogni dove, lo stomaco era in tensione, l'andatura rallentava timorosa e incerta, una porta sbattè al piano superiore e passi di donna si mescolarono al suono di altri oggetti, i passi scendevano la scala e lui vide le gambe del suo sogno scendere per la prima rampa, poi la figura intera si fermò sul pianerottolo e lo guardò. Il tempo non esiste, è un'invenzione, un calcolo per gente che si scorda spesso di vivere o che vive così tanto che bisogna fermarla per consentire al tempo di raggiungerla. Quanto durò quel momento non è veramente possibile quantificarlo. Durò il tempo necessario a far passare tutto il presente, e il presente è sempre, quando lo vivi. Poi l'Argia scese lentamente la seconda rampa, con gli occhi già persi in quella figura ai piedi della scala. Le dita tenevano il corrimano quasi a chiedergli se quello che aveva intorno era vero, o come quando ci si tiene per mano per farsi coraggio nell'affrontare un'emozione troppo forte. Il silenzio tratteneva il fiato per loro, perchè il loro si stava spezzando, squarciava il petto, si gettava dentro l'altro a cercare aria, vita, odore, passione. E tutto aumentava a dismisura col diminuire della distanza, ogni scalino sceso era uno in più di lacerazione fino ad arrivare ad un abbraccio così intenso e forte da sembrare un lunghissimo, inarrestabile orgasmo.
Nel paesino di **** alle due e diciotto del ventisei ottobre millenovecentosessantatre si componeva un'immagine che se uno non la vive non la potrà mai comprendere.


(Forse la storia continuerà...)