Ho sempre sentito dire che la chitarra,
se te la sogni, è una rappresentazione dell'immagine femminile.
E io che ho fatto? Me ne sono sognate
due, che sbruffone. Non avendo, nei fatti, un'amante, ho pensato bene
di comperarmi una nuova chitarra, la quarta, se non considero quelle
che ho avuto e poi ceduto negli anni passati. Forse sono musicalmente
musulmano.
A casa mia le chitarre parlano, in
fondo se già lo hanno fatto i cani possono farlo pure le chitarre,
che male c'è. Quando un oggetto cade o una voce sfiora certe
frequenze, loro vibrano delicatamente, entrano in risonanza. Che
carine, sono vive, si emozionano!
Insomma è andata così.
Qualcuno forse ricorderà, ma ne
dubito, la storiella della Venere di legno (mi accorgo però che il
post sulla Venere di legno non l'avevo pubblicato, provvederò a
metterlo di seguito a questo, scemenza più scemenza meno il danno è
minimo). Comunque lei è ancora qui, vive con me da più di
vent'anni. Il nostro rapporto è stato oscillante, a volte intenso, a
volte blando. Negli ultimi anni l'avevo sempre più trascurata,
almeno rispetto ai primi momenti amorosi, o forse era stata lei a
stufarsi di me e sperava (attendeva?) di passare sotto le dita di un
miglior musicista. Sta di fatto che ultimamente, nel prenderla tra le
braccia, sentivo la sua leggerezza come fosse la prima volta che la
sfioravo, ma le mie dita arrancavano arrugginite e la sensazione di
essere un imbranato che ha a che fare con una dea superba quanto
spietata mi deprimeva.
Qualche sera fa ho portato a casa la
nuova chitarra, aspettandomi una scenata di gelosia dalla Venere, e
invece niente.
Dovevo valutare se la nuova arrivata mi
sarebbe stata utile per delle nuove sonorità o se addirittura poteva
rivelarsi in qualche aspetto superiore alla Venere stessa. Le ho
messe accanto e, almeno esteticamente, non c'era storia, la Venere è
insuperabile, ha delle curve perfette, un colore unico, è una Venere
scura, fa venire in mente il Nigra sum sed formosa del Cantico dei
Cantici. Ho quindi preso tra le braccia la nuova venuta e ho iniziato
ad arpeggiare vari accordi, lei mi rispondeva con voce equilibrata e
abbastanza corretta, ma senza nessun carattere, senza provocare in me
nessuna passione particolare, dovevo forzare molto le corde per farle
fare un gridolino interessante, ma lei poi finiva spesso per
“strappare”. E che cazzo, ma sei di legno?
Ho preso la Venere ed ecco che la mia
pancia ha iniziato a fremere, le armonie tornavano, le ottave e le
quinte erano corrette, l'orecchio si appagava. Lei ha un suo suono,
quello a cui il mio orecchio tende, che non è detto sia perfetto per
tutti, ci sono suoni infinitamente più belli (cavolo, mi viene in
mente Ezra Pound, ci sono cantori più bravi di te).
E quindi siamo pari, nel senso che
anche se la Venere aspettasse musicisti migliori, dovrà sapere in
cuor suo che ci sono anche chitarre più belle di lei.
E tutto questo non vuol dire niente.
La Venere di legno
Buonasera, dissi varcando la soglia
del negozio mentre lo sguardo già percorreva ansioso tutta quella
parata di meraviglie appese, appoggiate, sdraiate o gelosamente
custodite, esposte, esibite, mostrate, ostentate. Come di fronte a
una folla di forme e profumi i sensi indugiavano a distinguer bene,
l'occhio si smarriva, l'olfatto non selezionava, per il tatto era
troppo presto, il gusto fuori luogo, ma l'udito...l'udito era
impaziente.
Buonasera, disse la padrona.
L'obbligo della buona
educazione mi impose di rivolgere un sorriso e una domanda, ma ne
avrei fatto volentieri a meno. Quanti ostacoli, quanti convenevoli,
quanto tempo vien sprecato per l'ovvio. Sembra che una frigida
perversione ci abbia imposto di occultare l'immediatezza, rallentando
tutto in una forma algida e fuorviante, per distogliere l'attenzione
dalla nudità, considerata oscena, del nostro volto chiaro e
manifesto, passaporto inequivocabile della nostra intelligenza, permettendo così
alle parole di mascherare inutilmente il colpo d'occhio che investe
l'uno e l'altra in un baleno. Transitori d'attacco, così si chiamano
quelle porzioni in microsecondi all'inizio di un suono. Contengono
tutte le informazioni d'identificazione dello strumento che l'ha
emesso, togli quelle e non distingui più un fagotto da un
pianoforte. Tutto in un tempo incredibilmente breve. Secondo me
avviene così anche tra le persone.
Desidero vedere una Ramirez,
chiesi spostando velocemente e impercettibilmente lo sguardo fra gli
occhi e la bocca di quella donna.
Sì, ne abbiamo due, gliele
mostro.
Ne abbiamo? Ma quanti siete, vedo solo lei in questo
negozio, mica userà il plurale maiestatis, pensai ridendo fra me,
forse vuol dirmi che fa parte di uno staff, bugiarda, è la padrona,
i suoi dipendenti, che non ci sono adesso, sono dei subordinati, no,
questo lo chiamerei plurale d'importanza malcelata, nel senso che
finge la modestia ma fa sdoganare il vanto. Oppure, più
semplicemente, si aggrappa a quel plurale per difesa della sua
solitudine in quel momento, davanti a uno sconosciuto...che però le
ha chiesto una Ramirez, cazzo!
Andò, io la seguii. Mentre tutte
le altre mi osservavano passare, occhieggianti, ammiccanti, un po' puttane,
chissà quante mani vi avranno sfiorate, insozzate, stuprate,
scordate. Chissà cosa si dicevano, mi sembrava di essere in un
bordello. Ecco un nuovo cliente, sussurravano, chissà chi sarà la
fortunata, diceva una, o la sventurata, risuonava un'altra. Guardagli
la mano destra, ha le unghie... e un coro di bisbiglii sconfortati
pervase un'ala del negozio. Bene, disse una, vien da noi di sicuro,
ragazze per voi non c'è storia, cantò strafottente alle altre che
si erano lamentate.
La padrona aprì una teca d'angolo, non in
evidenza ma ben pulita e illuminata. Mentre girava la chiave pensai a
Porzia e ai suoi tre scrigni, di chitarre ce n'erano tre. Ma non aveva
detto due? Chi era la terza? La curiosità frantumò in un attimo le
mie certezze, ma in un lampo tornò in mio aiuto il nome altisonante
delle due: Ramirez. Statuarie, nobili, sprezzanti. Atreiu sotto al
varco dell'Oracolo del sud fu l'impressione. Ma l'occhio già
spingeva verso l'altra, la sconosciuta. Tormenti che vi auguro di non
provare. Smarrito già all'istante e poi da che? Un mondo mi passò
infinitamente, un me bambino in quella strada, coi soldi in mano
davanti alla vetrina, tanti anni fa. Deciso, quella volta, non ce n'è
altre. Quella voglio, ecco qui il denaro.
Adesso sono ricco e
titubante.
Presi la seconda, la prima era da studio, non fa per
me, sono ignorante. Con calma lieve l'appoggiai alla gamba e già ne
valutavo il peso con l'odore. Toccai la sesta e dopo tutte le altre
cinque, breve ritocco dell'accordatura, poi un attimo sospeso ad
intuire cosa mi chiedeva che dovessi fare. Un mi, va bene, un sol,
fatto, un si, eccolo. Ottima, equilibrata, pronta, senza mezzi suoni.
Ancora, sol,re,fa,mi. Bene, risponde, mi segue, vuole andare, è una
spagnola, proviamo con Asturias. Le dita non subito pronte, così a
freddo, tradirono Albeniz al primo barrè, ma la cosa non importa,
stavo provandola, non stavo registrando. Mi fermai e osservai la
padrona, che sorridente appariva inorgoglita, di cosa poi non capivo,
ma le sorrisi anch'io. Imbarazzato dalla sua presenza guardona
continuai in un arpeggio improvvisato. Mi dava fastidio quella donna.
Perchè non ci lasciava soli? Sembrava una madre nera che
agguinzaglia la figliola. Ma intanto l'occhio mio divenne Margherita,
che tra le braccia dell'amante già ammicca al nuovo. Posso vedere la
terza?
A te che leggi non saprò mai dire, cosa successe dopo non
ha parole, un brivido montava nella mano che sollevò quella Venere
di legno antico, leggera, in modo inaudito, sembrò adagiarsi fra le
mie braccia con riservato ardore, tremava lei o tremavo io? Il fiato
corto e l'emozione fecero sparire quella megera impiantonata. Non
c'era più, non c'era più nessuno, sparito il mondo. Non chiesi, e
come potevo, le note da suonare, con quella grazia o sei te stesso o
lascia stare. Ti guarda in faccia, ti preme contro il cuore,
s'insinua fra le gambe, aspetta la tua passione. Tu temi quelle
altezze, potresti incespicare, ti gira la testa non sai più dove
andare. Respiri, calmo, ti lasci un po' andare, ascolti, ascolti
bene.
Feci una cosa insolita, portai la sesta in re, poi non so
dirvi altro, sarebbe qui impossibile.
Potrei allungare
sconsideratamente questo racconto con giravolte e fulmini, ponti celesti o gole inabissate. A volte l'onestà è un
obbligo, ed io mi fermo a questo punto, quasi fosse una corona al
termine di una partitura, sulla soglia della musica, per rispetto a
lei ed anche a voi.
Adesso è qui accanto a me, regala alla mia
casa il suo profumo, ma quando la tocco le parole si trasformano e mi
dispiace di non potervele far sentire.