giovedì 5 dicembre 2013
martedì 15 ottobre 2013
Carpe diem
Gli autunni mi diventano sempre più
antipatici, il metronomo delle stagioni è sempre più lento, e la
loro musica sempre più ripetitiva.
L'assurdo è che il tempo m'appare più
veloce.
Ed ecco che tornano a sorridermi l'uva fragola i funghi e le
noci, ma il mio cuore s'è nascosto da qualche parte, lui si nutre
d'altro.
Carpe diem, gli dico.
E allora lui accenna un sorriso, gentile, paziente.
Ma non lo è, io lo conosco.
giovedì 12 settembre 2013
Ralph è meglio dell'Ammannati
Il chitarrista del post precedente era
un illustre sconosciuto, quello in questa foto invece è un “grande”
ma, anche lui, è sicuramente sconosciuto ai più.
Si chiama Ralph
Towner , ha settantatré anni e martedì sera ha tenuto un bellissimo
concerto nel cortile del Bargello a Firenze.
L'evento per me era di
quelli memorabili, tant'è che avevo preso da tempo i biglietti nel timore che si potessero esaurire (illuso). Ma
che sorpresa nel vedere che al massimo saremo stati sessanta o
settanta persone ad ascoltare questo meraviglioso artista. D'accordo,
lo so che la chitarra è una roba per appassionati e oltretutto la
musica strumentale allontana gli amanti di canzonette o di motivetti
orecchiabili.
Ma che peccato, che tristezza.
Metterò un link ad un suo bellissimo pezzo in cui suona insieme agli Oregon, gruppo da lui fondato nel 1970.
A onor del vero avevo registrato un picciol video della serata ma
l'audio, purtroppo, non è proponibile.
Il contesto comunque era splendido e l'acustica ottima,
Ralph aveva alle spalle una fontana dell'Ammannati, che non era certo
un grande scultore (“Ammannato, Ammannato che bel pezzo di marmo
t'hai sciupato” dissero i fiorentini di fronte a un'altra sua celebre
fontana che è in piazza della Signoria).
Ad ogni modo, all'interno
del cortile, che è assai più bello della fontana, anche questa fa il suo effettaccio. E poi la figura della donna che si
stringe i seni per far sgorgare l'acqua, che qui non c'è, io la trovo
quasi erotica.
Sarò mica un maniaco? Mi devo preoccupare?
martedì 10 settembre 2013
tenerezza
Ero al mare e la sera siamo andati in
un buon posticino per mangiare dell'ottimo pesce.
Mentre mi
avvicinavo al locale ho sentito della musica provenire da una
piazzetta lì vicino. Sono andato a dare una sbirciatina e mi sono
commosso.
La Fender e gli amplificatori sono da
sempre legati all'immagine delle giovani Band, quelle che da sempre
cavalcano il dissenso, la ribellione, la dissacrazione,
l'anticonformismo, l'angoscia o la gioia di vivere, anche se talvolta celano un narcisismo avido solo di successo e fama.
Questa
foto sembra uno sberleffo a quegli stereotipi, sembra una dissonanza
ironica e raffinata, o forse solo un monito tedioso e banale. Dipende
dai punti di vista.
Fra non molto tempo somiglierò a
questo chitarrista (per età intendo) ed ho pensato che le passioni,
quelle vere, non sbiadiscono con gli anni. L'età e le ideologie sono
solo un abito uggioso che sei costretto a indossare perché non ne
hai un altro. Ma siccome sotto gli abiti tutti siamo nudi, allora
penso che quella che chiamano anima dev'essere la parte non materiale
del nostro corpo che sfugge alle offese del tempo e alla cecità del
positivismo estetico.
Certo, la realtà materiale esiste, e
un bel corpo giovane ha il suo indiscutibile valore. Però il corpo
sottostà ineluttabilmente all'influenza del tempo e sarà bene, se
vogliamo essere felici, comprendere che anche la musica ha a che fare
col tempo ma, al contrario del corpo che ne subisce tutte le
angherie, lei riesce a sfruttarlo, a modellarlo, a dilatarlo,
danzandoci insieme.
Nessuno sarà mai felice se non scopre
il vero segreto della musica...
lunedì 5 agosto 2013
Il berrettino di Pierino
Stamattina girellavo nei dintorni
dell'eremo, il mio tanto per cambiare, dintorni che io considero
abbastanza estesi, nel senso che se non prendessi la macchina mi dovrei
fare una decina di chilometri a piedi prima di incontrare un po' di
civiltà, ma io non sono così salutista, né così ascetico da
considerare il tempo una inutile preoccupazione.
Sospendo subito le mie opinioni, non
interessano qui, e ricomincio daccapo.
Passavo da una stradella piuttosto
amena e poco frequentata, che in realtà è anche un'ottima
scorciatoia per tornare a **** venendo da ******. Chiarissimo no? Procedevo con un'andatura più prudente di quella di un pensionato miope su una FIAT 127 color cremino, ma non c'era nessuno e mi godevo il paesaggio.
La luce delle nove del mattino e la
giornata particolarmente tersa mi hanno costretto a fermare l'auto e fare qualche foto
ad una bellissima Pieve del XII secolo. Niente di nuovo, la Pieve la
conosco da decenni, però mentre la fotografavo mi sono sorpreso di non
avere mai approfondito un particolare assai divertente.
La prima foto mostra la meravigliosa abside della Pieve,
ma appiccicato alla parete di sinistra c'è
un piccolo edificio dall'aspetto assai singolare.
A me sembra la faccina di Pierino con
un'espressione di un tale stupore da mandargli all'indietro anche il
ridicolo berrettino.
Chissà cosa ha visto. (Di fronte a sè ha l'Appennino)
Poi però ho potuto guardare attraverso
i suoi occhietti
e ho visto, giù nel prato, un cretino che mi stava
fotografando. Ero io il cretino, mi son immaginato così, perché
adesso che ero dentro Pierino, alzando la testa scoprivo il lavoro
incredibile che sta sotto il suo "ridicolo" berrettino.
Per la cronaca l'edifico col berrettino è il battistero, aggiunto in periodo tardoromanico.
P.S. E' obbligatorio chiamare il copricapo di Pierino berrettino e non berretto o cappello o cappellino, perché Pierino c'ha i' berrettino, sia chiaro una volta per tutte!
P.S. E' obbligatorio chiamare il copricapo di Pierino berrettino e non berretto o cappello o cappellino, perché Pierino c'ha i' berrettino, sia chiaro una volta per tutte!
mercoledì 31 luglio 2013
mah!
L'eremo, il mio, concilia il fancazzismo con la scrittura e la riflessione. Ma subito mi fermo, perché la parola riflessione mi sta antipatica, la usano spesso i preti e gli ipocriti.
Io non rifletto, non sono uno specchio.
Penso, e prima ancora di pensare faccio
immagini. Sono quelle a dare il La al pensiero.
Cosa siano poi queste immagini non
saprei dire, non sono figure, sono semmai più simili a sensazioni,
emozioni, affetti. Ma anche questi, a ben vedere, sono solo simulacri
di quelle immagini, o effetti di quelle immagini, ché nude son
troppo evanescenti e indefinite.
Stanno a monte di tutto.
Stanno a monte di tutto.
Le parole poi le coprono ancora di
più, le vestono e le trasformano per renderle comunicabili, ma così
non sono più loro.
Semmai, ma questo è grazie ai poeti e ai grandi scrittori, talvolta ci compaiono davanti, ed è uno stupore dei nostri stessi occhi.
Semmai, ma questo è grazie ai poeti e ai grandi scrittori, talvolta ci compaiono davanti, ed è uno stupore dei nostri stessi occhi.
lunedì 15 luglio 2013
Adolescenza
Il blogghino si è lamentato della mia
assenza, io gli ho detto di farsi i cazzi suoi ma poi, visto che è
lo specchio delle mie scemenze, ho pensato di mettercene un'altra, di
scemenza, così lo tengo buono per un po'.
C'è una vecchia e bellissima canzone
di Cat Stevens che mi ronza nelle orecchie da qualche mese, è un
ricordo adolescenziale indistruttibile. Allora ho acceso il
registratore e ho buttato giù quel che veniva. La cosa interessante
è, oltre alla bellissima melodia, il testo. Sul web si sprecano le
interpretazioni in merito, perché ci sono libertà espressive
che molti non capiscono, come ad esempio la celebre frase “Yellow
Delanie would sleep well at night”, nessuno sa cosa sia “yellow
delanie”. Un tizio addirittura ha scritto che in realtà era un
omaggio al pittore Delaney, per il fatto che dipingeva quadri gialli.
Ma siccome il tizio insisteva più sull'omosessualità del pittore
che non sulla sua arte, ho pensato che fosse una forzatura per tirare
acqua al mulino dei gay. E poi nel testo è scritto Delanie, che fa
pensare più a un fiore o a una ragazza.
Comunque sia a me piace l'incipit:
“I built my house...”
E allora ho fantasticato con un video,
mescolando le immagini del mio eremo, che mi costò tanta fatica sì,
ma piena di passione, con la musica che avevo registrato. Nella mia
memoria sgangherata il barley rice è diventato un barney rice, ma mi
consolo perchè Barney è il nome di un'ottima birra.
Invece del Brown-haired dogmouse c'è
un gatto bianco e nero (qualcuno lo ricorderà), che se vedesse un
dogmouse se lo papperebbe in quattro e quattr'otto. Invece che Red
legged chicken c'è un nibbio, che però ha le zampe gialleed è molto più feroce
ma anche molto più bello di un pollo. Mi manca il Sad Blue eyed drummer, ma dove lo trovo un batterista triste e dagli occhi blu di lunedì pomeriggio, compreso il ragno nero che danza in cima al suo occhio? Ho messo dei fiorellini in sua assenza e anche per
Yellow Delanie ho messo un bel fiore di Hypericum, ne ho tantissimi e
ne sono orgoglioso.
Chi ascolterà con un buon impianto e
un buon udito sentirà in qualche punto anche il canto delle cicale,
avevo la porta aperta e... va bene così, e poi
le considero mie parenti.
Va da sé che suonare e cantare la
musica di un gigante come Cat Stevens espone a dei rischi, se non al
ridicolo, ma questo vale solo per i professionisti.
Io non lo sono, sono solo in vacanza.
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martedì 7 maggio 2013
Elogio della lentezza
E' piccola come un'unghia, è nata da
poco e l'ho vista appena in tempo per non calpestarla. La trovo
affascinante nella sua lentezza, già con la sua casetta sulla
schiena, già sola nel mondo.
Non ho resistito, l'ho fotografata e
filmata e lei pareva accorgersene, faceva ciao con le antennine (i
miei deliri non hanno confini) e allora ho pensato di comporle una
piccola musica che avesse il suo ritmo lento e sinuoso.
Mentre montavo il video avevo la sensazione di vedere uno di quei filmati che ci facevano da bambini.
Poi l'ho presa con delicatezza e
adagiata su una foglia del glicine.
Buona fortuna mia piccola chiocciolina.
sabato 4 maggio 2013
Tropici
Può accadere, mentre si suona o si compone una musica, anche la più banale o la più semplice, di sognare e suonare per raccontare quello strano sogno.
Passare da una sedia a una zattera di bambù e svegliarsi su un'altra sedia di fronte a una spiaggia tropicale, vedendo svanire in lontananza ogni inutile fardello del mondo industrializzato.
E' una piccola, innocente fuga con la fantasia.
Affondavano, laggiù nel mare, televisori, auto, cellulari, tasse, politici corrotti, ideologie, crisi economica, banche, bollette, credo religiosi, razzismo, donne indifferenti, disoccupazione, sfruttamento, inquinamento, centri commerciali, spot pubblicitari, falsi bisogni, ansie da prestazione, amici bugiardi, leggi di mercato, debito pubblico, paranoie, social network.
Affondavano anche i termosifoni, i cappotti, di lana, le scarpe pesanti e affondava per sempre pure l'inverno.
Basterebbe poco, mi piace immaginarlo, o almeno sognarlo.
Quando butto giù tre o quattro note senza pensare (e quando mai penso mentre suono?), dopo un po' mi accorgo di quale immagine avevo in mente. E così ho rubato un po' di foto nel web e le ho montate in un video per aiutare l'ascolto di chi, se non vede le figure, non sa spiegarsi la musica. Un'immagine estremamente semplice, oserei dire, anche musicalmente, che però mi fa stare bene e mi fa dire: vorrei essere lì, vorrei essere così, vaffanculo!
sabato 27 aprile 2013
Antidepressivi
Ce ne sono di vario tipo, alcuni sono
estremamente tossici e li vendono in farmacia, altri invece fanno
solamente ingrassare un pochino e sono reperibili nei luoghi più
svariati e senza ricetta. Dei primi non m'interesso, mentre dei
secondi potrei redigere una lunghissima e interminabile lista alla
quale ognuno potrebbe aggiungere nuovi elementi poiché trattasi di
argomento assai soggettivo. Gli alcolici potrebbero ampiamente
rientrare nell'elenco, come pure le varianti non alimentari che
possono andare dall'ascolto di una buona musica fino alla passeggiata
nel bosco, dal massaggio shiatsu al volo col deltaplano.
Di solito, per facilità e velocità
d'acquisizione, i dolci occupano i primi posti, ma sarebbe sbagliato
relegare in coda le varianti salate e, a riprova di questo,
suggerirei l'assaggio dei panini tartufati dell'odioso Procacci di via Tornabuoni (citati anche
nella celebre canzone del Marasco “Teresina un ti ci porto più”
in cui la sventurata disse, osservando il panino, che “l'è
piccino!”)
Questo post, tralasciando ogni
ulteriore sproloquio, è un omaggio a quel particolare dolce che, in mancanza di meglio, considero un piccolo
antidepressivo: il Brigidino. Pare sia nato dall'errore di una suora nel
preparare le ostie. Essendo la suora una Brigidina (da Santa Brigida
di Svezia) fu d'obbligo chiamare quei dolci Brigidini. Da notare
anche la coincidenza col Boccaccio, il quale ambientò una sua novella in un
convento che, probabilmente, doveva essere di Brigidine. In
quella novella l'astuto Masetto è un contadino che si finge
sordomuto per impietosire le monache del convento, convincendole ad
ospitarlo. Le monache poi non disdegneranno di “trastullarsi col
mutolo”... che tanto non avrebbe potuto raccontare nulla. (Questa è
la miglior cura antidepressiva: scopare e non dover spiegare niente a
nessuno, nemmeno a se stessi!)
In mancanza di suore avvenenti (e chi
ne ha mai viste?) pubblico questa foto inneggiante ai mitici
Brigidini, troneggianti sulla poltrona e, soprattutto, perché mi
piace interpretare fantasiosamente il nome della casa di produzione.
domenica 7 aprile 2013
mercoledì 3 aprile 2013
Tatiana mon amour
Io adoro questa donna! La profondità che aveva nei suoi occhi di giovinetta non si smarrì dentro le pieghe del tempo, nè sotto i chili che aveva accumulato.
Shostakovic, dopo averla conosciuta, le dedicò quel capolavoro, poco noto al grande pubblico, che sono i 24 preludi e fughe. Fu un'idea di Tatiana quella di inserirli in un programma di concerto, altrimenti penso che sarebbero ancora meno conosciuti.
Divenne famosa fuori dai confini sovietici solo in età avanzata, dopo il crollo dell'Unione Sovietica.
Qui ci parla di Dimitri.
Tat'jana Petrovna Nikolaeva morì nel 1993, dopo un'emorragia cerebrale sopraggiunta durante un concerto a S.Francisco in cui interpretava ancora una volta l'opera di Shostakovic. Aveva soltanto 69 anni ma non li portava tanto bene.
Suonato da lei ascolto spessissimo il Clavicembalo ben temperato di Bach, lo interpreta a meraviglia. Oserei dire che, a differenza di altre versioni suonate da uomini, nella sua la femminilità fa la differenza.
Shostakovic, dopo averla conosciuta, le dedicò quel capolavoro, poco noto al grande pubblico, che sono i 24 preludi e fughe. Fu un'idea di Tatiana quella di inserirli in un programma di concerto, altrimenti penso che sarebbero ancora meno conosciuti.
Divenne famosa fuori dai confini sovietici solo in età avanzata, dopo il crollo dell'Unione Sovietica.
Qui ci parla di Dimitri.
Tat'jana Petrovna Nikolaeva morì nel 1993, dopo un'emorragia cerebrale sopraggiunta durante un concerto a S.Francisco in cui interpretava ancora una volta l'opera di Shostakovic. Aveva soltanto 69 anni ma non li portava tanto bene.
Suonato da lei ascolto spessissimo il Clavicembalo ben temperato di Bach, lo interpreta a meraviglia. Oserei dire che, a differenza di altre versioni suonate da uomini, nella sua la femminilità fa la differenza.
mercoledì 27 marzo 2013
...Il giorno seguente non morì nessuno.
Qualche settimana fa lessi su facebook
una frase tratta da Le intermittenze della morte di Josè Saramago "Lei, che non dormiva mai, sentì che il sonno le faceva calare dolcemente le palpebre. Il giorno seguente non morì nessuno".
Forse ne ho già parlato, non ricordo, ma in ogni caso lo ripeto, è
il mio libro preferito. E leggendo quella frase mi sono chiesto
perché mi porto quel libro nel cuore.
Non ho certo la pretesa, ignorante come
sono, di farne qui una recensione, no, voglio solo scrivere a braccio
il motivo profondo, e semplice, per cui quel racconto è per me un
capolavoro assoluto.
La morte è una gran rottura di
coglioni, oltretutto moltissimi religiosi, e altri furbetti frastornati, tentano
di fracassarceli ulteriormente menando storielle assurde su
reincarnazioni o paradisi o inferni o vattelapesca quali altre
minchiate.
Cerchiamo di cambiare prospettiva e
osserviamola dall'angolazione geniale e paradossale che ci propone
Josè.
La morte a un certo punto si stufa di fare sempre le stesse cose, ossia di prelevare a suo
insindacabile giudizio le persone senza dar loro alcuna possibilità
di replica, senza ascoltarle, senza chiedere, senza comprendere.
Il
protagonista è un violoncellista che vive solo, e appare chiaro come
nella sua grigia esistenza la musica sia l'unica forma di desiderio
che possa permettersi. Ma è proprio questa ostinazione, che definirei psicofisica
dell'uomo, a incuriosire la morte, che deciderà, visto che si
annoia, di prendere le sembianze di una bella donna per
sedurre l'uomo. Lo farà come può farlo la morte, cioè per condurlo
a sé, per portarlo alla sua conclusione, alla soluzione ultima, alla
fine del desiderio, alla morte appunto. Ma la morte, non essendo mai
stata di carne e sangue, non sa a cosa andrà incontro.
Trovo singolare che Saramago abbia
rappresentato la morte attraverso una donna, ma forse sarebbe più
interessante e corretto dire il contrario, cioè che ha
rappresentato la donna attraverso la morte. Come a dire che l'uomo
cercherà la donna fino alla fine dei suoi giorni (e viceversa, ma
questa è solo una supposizione dato che chi scrive è un uomo e, per
onestà, non può permettersi di parlare per l'altro sesso).
La vitalità è una spinta che si
estingue nella morte cedendole il corpo, ma quando è unita alla
creatività, e salvo imprevisti tecnici, si rinnoverà in
continuazione come un'araba fenice, colorando la vita di un senso che
altrimenti non avrebbe.
Chi non ha mai provato veramente il
desiderio per l'altro sesso non comprenderà il senso e la verità di
questa allegoria.
Vi siete mai ammalati d'amore? Avete mai avuto i
crampi allo stomaco? Avete mai visto la morte in faccia per un
abbandono? Avete mai assaporato quella morte che non tocca il corpo,
salvo sconquassarlo un po', ma destabilizza la salute mentale? Siete
mai stati in bilico sul precipizio? Avete mai avuto la vertigine per
la realizzazione di un sogno d'amore? Avete mai provato il dolore
allucinante che consegue alla sua perdita? Avete mai guardato
nell'abisso?
Non c'è niente di romantico in tutto
questo, è solo un fatto umano.
Non riproduttivo ma creativo.
Per un
uomo la realizzazione dell'immagine femminile è il massimo a cui
possa tendere. Senza di essa è un uomo a metà, un animale astratto,
un seminatore di deserti, un pazzo solipsista che odia e fugge il
diverso da sé.
Se è uomo farà i conti con la donna e la
donna li farà con lui. Non è una questione sessista, è un fatto
legato alla fisiologia e alla forma del nostro corpo, quindi anche
alla forma del desiderio, a meno che non si creda nello spirito
santo.
C'è chi tenta di fuggire da questo
confronto, ma quei tentativi non interessano l'autore del libro, né
il sottoscritto. Al massimo possiamo comprendere gli errori, gli
smarrimenti, ma non l'ideologia che ne potrebbe derivare, perché
sarebbe un'infezione mortale che porterebbe alla pazzia.
Quindi la morte, che non era mai stata
di carne e sangue, diventando donna s'innamorò dell'uomo e gli
regalò il tempo necessario a realizzare un sogno.
Quel sogno che chiamiamo amore.
…Il giorno seguente non morì
nessuno.
domenica 17 marzo 2013
Amanti e chitarre
Ho sempre sentito dire che la chitarra,
se te la sogni, è una rappresentazione dell'immagine femminile.
E io che ho fatto? Me ne sono sognate
due, che sbruffone. Non avendo, nei fatti, un'amante, ho pensato bene
di comperarmi una nuova chitarra, la quarta, se non considero quelle
che ho avuto e poi ceduto negli anni passati. Forse sono musicalmente
musulmano.
A casa mia le chitarre parlano, in
fondo se già lo hanno fatto i cani possono farlo pure le chitarre,
che male c'è. Quando un oggetto cade o una voce sfiora certe
frequenze, loro vibrano delicatamente, entrano in risonanza. Che
carine, sono vive, si emozionano!
Insomma è andata così.
Qualcuno forse ricorderà, ma ne
dubito, la storiella della Venere di legno (mi accorgo però che il
post sulla Venere di legno non l'avevo pubblicato, provvederò a
metterlo di seguito a questo, scemenza più scemenza meno il danno è
minimo). Comunque lei è ancora qui, vive con me da più di
vent'anni. Il nostro rapporto è stato oscillante, a volte intenso, a
volte blando. Negli ultimi anni l'avevo sempre più trascurata,
almeno rispetto ai primi momenti amorosi, o forse era stata lei a
stufarsi di me e sperava (attendeva?) di passare sotto le dita di un
miglior musicista. Sta di fatto che ultimamente, nel prenderla tra le
braccia, sentivo la sua leggerezza come fosse la prima volta che la
sfioravo, ma le mie dita arrancavano arrugginite e la sensazione di
essere un imbranato che ha a che fare con una dea superba quanto
spietata mi deprimeva.
Qualche sera fa ho portato a casa la
nuova chitarra, aspettandomi una scenata di gelosia dalla Venere, e
invece niente.
Dovevo valutare se la nuova arrivata mi
sarebbe stata utile per delle nuove sonorità o se addirittura poteva
rivelarsi in qualche aspetto superiore alla Venere stessa. Le ho
messe accanto e, almeno esteticamente, non c'era storia, la Venere è
insuperabile, ha delle curve perfette, un colore unico, è una Venere
scura, fa venire in mente il Nigra sum sed formosa del Cantico dei
Cantici. Ho quindi preso tra le braccia la nuova venuta e ho iniziato
ad arpeggiare vari accordi, lei mi rispondeva con voce equilibrata e
abbastanza corretta, ma senza nessun carattere, senza provocare in me
nessuna passione particolare, dovevo forzare molto le corde per farle
fare un gridolino interessante, ma lei poi finiva spesso per
“strappare”. E che cazzo, ma sei di legno?
Ho preso la Venere ed ecco che la mia
pancia ha iniziato a fremere, le armonie tornavano, le ottave e le
quinte erano corrette, l'orecchio si appagava. Lei ha un suo suono,
quello a cui il mio orecchio tende, che non è detto sia perfetto per
tutti, ci sono suoni infinitamente più belli (cavolo, mi viene in
mente Ezra Pound, ci sono cantori più bravi di te).
E quindi siamo pari, nel senso che
anche se la Venere aspettasse musicisti migliori, dovrà sapere in
cuor suo che ci sono anche chitarre più belle di lei.
E tutto questo non vuol dire niente.
La Venere di legno
Buonasera, dissi varcando la soglia
del negozio mentre lo sguardo già percorreva ansioso tutta quella
parata di meraviglie appese, appoggiate, sdraiate o gelosamente
custodite, esposte, esibite, mostrate, ostentate. Come di fronte a
una folla di forme e profumi i sensi indugiavano a distinguer bene,
l'occhio si smarriva, l'olfatto non selezionava, per il tatto era
troppo presto, il gusto fuori luogo, ma l'udito...l'udito era
impaziente.
Buonasera, disse la padrona.
L'obbligo della buona educazione mi impose di rivolgere un sorriso e una domanda, ma ne avrei fatto volentieri a meno. Quanti ostacoli, quanti convenevoli, quanto tempo vien sprecato per l'ovvio. Sembra che una frigida perversione ci abbia imposto di occultare l'immediatezza, rallentando tutto in una forma algida e fuorviante, per distogliere l'attenzione dalla nudità, considerata oscena, del nostro volto chiaro e manifesto, passaporto inequivocabile della nostra intelligenza, permettendo così alle parole di mascherare inutilmente il colpo d'occhio che investe l'uno e l'altra in un baleno. Transitori d'attacco, così si chiamano quelle porzioni in microsecondi all'inizio di un suono. Contengono tutte le informazioni d'identificazione dello strumento che l'ha emesso, togli quelle e non distingui più un fagotto da un pianoforte. Tutto in un tempo incredibilmente breve. Secondo me avviene così anche tra le persone.
Desidero vedere una Ramirez, chiesi spostando velocemente e impercettibilmente lo sguardo fra gli occhi e la bocca di quella donna.
Sì, ne abbiamo due, gliele mostro.
Ne abbiamo? Ma quanti siete, vedo solo lei in questo negozio, mica userà il plurale maiestatis, pensai ridendo fra me, forse vuol dirmi che fa parte di uno staff, bugiarda, è la padrona, i suoi dipendenti, che non ci sono adesso, sono dei subordinati, no, questo lo chiamerei plurale d'importanza malcelata, nel senso che finge la modestia ma fa sdoganare il vanto. Oppure, più semplicemente, si aggrappa a quel plurale per difesa della sua solitudine in quel momento, davanti a uno sconosciuto...che però le ha chiesto una Ramirez, cazzo!
Andò, io la seguii. Mentre tutte le altre mi osservavano passare, occhieggianti, ammiccanti, un po' puttane, chissà quante mani vi avranno sfiorate, insozzate, stuprate, scordate. Chissà cosa si dicevano, mi sembrava di essere in un bordello. Ecco un nuovo cliente, sussurravano, chissà chi sarà la fortunata, diceva una, o la sventurata, risuonava un'altra. Guardagli la mano destra, ha le unghie... e un coro di bisbiglii sconfortati pervase un'ala del negozio. Bene, disse una, vien da noi di sicuro, ragazze per voi non c'è storia, cantò strafottente alle altre che si erano lamentate.
La padrona aprì una teca d'angolo, non in evidenza ma ben pulita e illuminata. Mentre girava la chiave pensai a Porzia e ai suoi tre scrigni, di chitarre ce n'erano tre. Ma non aveva detto due? Chi era la terza? La curiosità frantumò in un attimo le mie certezze, ma in un lampo tornò in mio aiuto il nome altisonante delle due: Ramirez. Statuarie, nobili, sprezzanti. Atreiu sotto al varco dell'Oracolo del sud fu l'impressione. Ma l'occhio già spingeva verso l'altra, la sconosciuta. Tormenti che vi auguro di non provare. Smarrito già all'istante e poi da che? Un mondo mi passò infinitamente, un me bambino in quella strada, coi soldi in mano davanti alla vetrina, tanti anni fa. Deciso, quella volta, non ce n'è altre. Quella voglio, ecco qui il denaro.
Adesso sono ricco e titubante.
Presi la seconda, la prima era da studio, non fa per me, sono ignorante. Con calma lieve l'appoggiai alla gamba e già ne valutavo il peso con l'odore. Toccai la sesta e dopo tutte le altre cinque, breve ritocco dell'accordatura, poi un attimo sospeso ad intuire cosa mi chiedeva che dovessi fare. Un mi, va bene, un sol, fatto, un si, eccolo. Ottima, equilibrata, pronta, senza mezzi suoni. Ancora, sol,re,fa,mi. Bene, risponde, mi segue, vuole andare, è una spagnola, proviamo con Asturias. Le dita non subito pronte, così a freddo, tradirono Albeniz al primo barrè, ma la cosa non importa, stavo provandola, non stavo registrando. Mi fermai e osservai la padrona, che sorridente appariva inorgoglita, di cosa poi non capivo, ma le sorrisi anch'io. Imbarazzato dalla sua presenza guardona continuai in un arpeggio improvvisato. Mi dava fastidio quella donna. Perchè non ci lasciava soli? Sembrava una madre nera che agguinzaglia la figliola. Ma intanto l'occhio mio divenne Margherita, che tra le braccia dell'amante già ammicca al nuovo. Posso vedere la terza?
A te che leggi non saprò mai dire, cosa successe dopo non ha parole, un brivido montava nella mano che sollevò quella Venere di legno antico, leggera, in modo inaudito, sembrò adagiarsi fra le mie braccia con riservato ardore, tremava lei o tremavo io? Il fiato corto e l'emozione fecero sparire quella megera impiantonata. Non c'era più, non c'era più nessuno, sparito il mondo. Non chiesi, e come potevo, le note da suonare, con quella grazia o sei te stesso o lascia stare. Ti guarda in faccia, ti preme contro il cuore, s'insinua fra le gambe, aspetta la tua passione. Tu temi quelle altezze, potresti incespicare, ti gira la testa non sai più dove andare. Respiri, calmo, ti lasci un po' andare, ascolti, ascolti bene.
Feci una cosa insolita, portai la sesta in re, poi non so dirvi altro, sarebbe qui impossibile.
Potrei allungare sconsideratamente questo racconto con giravolte e fulmini, ponti celesti o gole inabissate. A volte l'onestà è un obbligo, ed io mi fermo a questo punto, quasi fosse una corona al termine di una partitura, sulla soglia della musica, per rispetto a lei ed anche a voi.
Adesso è qui accanto a me, regala alla mia casa il suo profumo, ma quando la tocco le parole si trasformano e mi dispiace di non potervele far sentire.
Buonasera, disse la padrona.
L'obbligo della buona educazione mi impose di rivolgere un sorriso e una domanda, ma ne avrei fatto volentieri a meno. Quanti ostacoli, quanti convenevoli, quanto tempo vien sprecato per l'ovvio. Sembra che una frigida perversione ci abbia imposto di occultare l'immediatezza, rallentando tutto in una forma algida e fuorviante, per distogliere l'attenzione dalla nudità, considerata oscena, del nostro volto chiaro e manifesto, passaporto inequivocabile della nostra intelligenza, permettendo così alle parole di mascherare inutilmente il colpo d'occhio che investe l'uno e l'altra in un baleno. Transitori d'attacco, così si chiamano quelle porzioni in microsecondi all'inizio di un suono. Contengono tutte le informazioni d'identificazione dello strumento che l'ha emesso, togli quelle e non distingui più un fagotto da un pianoforte. Tutto in un tempo incredibilmente breve. Secondo me avviene così anche tra le persone.
Desidero vedere una Ramirez, chiesi spostando velocemente e impercettibilmente lo sguardo fra gli occhi e la bocca di quella donna.
Sì, ne abbiamo due, gliele mostro.
Ne abbiamo? Ma quanti siete, vedo solo lei in questo negozio, mica userà il plurale maiestatis, pensai ridendo fra me, forse vuol dirmi che fa parte di uno staff, bugiarda, è la padrona, i suoi dipendenti, che non ci sono adesso, sono dei subordinati, no, questo lo chiamerei plurale d'importanza malcelata, nel senso che finge la modestia ma fa sdoganare il vanto. Oppure, più semplicemente, si aggrappa a quel plurale per difesa della sua solitudine in quel momento, davanti a uno sconosciuto...che però le ha chiesto una Ramirez, cazzo!
Andò, io la seguii. Mentre tutte le altre mi osservavano passare, occhieggianti, ammiccanti, un po' puttane, chissà quante mani vi avranno sfiorate, insozzate, stuprate, scordate. Chissà cosa si dicevano, mi sembrava di essere in un bordello. Ecco un nuovo cliente, sussurravano, chissà chi sarà la fortunata, diceva una, o la sventurata, risuonava un'altra. Guardagli la mano destra, ha le unghie... e un coro di bisbiglii sconfortati pervase un'ala del negozio. Bene, disse una, vien da noi di sicuro, ragazze per voi non c'è storia, cantò strafottente alle altre che si erano lamentate.
La padrona aprì una teca d'angolo, non in evidenza ma ben pulita e illuminata. Mentre girava la chiave pensai a Porzia e ai suoi tre scrigni, di chitarre ce n'erano tre. Ma non aveva detto due? Chi era la terza? La curiosità frantumò in un attimo le mie certezze, ma in un lampo tornò in mio aiuto il nome altisonante delle due: Ramirez. Statuarie, nobili, sprezzanti. Atreiu sotto al varco dell'Oracolo del sud fu l'impressione. Ma l'occhio già spingeva verso l'altra, la sconosciuta. Tormenti che vi auguro di non provare. Smarrito già all'istante e poi da che? Un mondo mi passò infinitamente, un me bambino in quella strada, coi soldi in mano davanti alla vetrina, tanti anni fa. Deciso, quella volta, non ce n'è altre. Quella voglio, ecco qui il denaro.
Adesso sono ricco e titubante.
Presi la seconda, la prima era da studio, non fa per me, sono ignorante. Con calma lieve l'appoggiai alla gamba e già ne valutavo il peso con l'odore. Toccai la sesta e dopo tutte le altre cinque, breve ritocco dell'accordatura, poi un attimo sospeso ad intuire cosa mi chiedeva che dovessi fare. Un mi, va bene, un sol, fatto, un si, eccolo. Ottima, equilibrata, pronta, senza mezzi suoni. Ancora, sol,re,fa,mi. Bene, risponde, mi segue, vuole andare, è una spagnola, proviamo con Asturias. Le dita non subito pronte, così a freddo, tradirono Albeniz al primo barrè, ma la cosa non importa, stavo provandola, non stavo registrando. Mi fermai e osservai la padrona, che sorridente appariva inorgoglita, di cosa poi non capivo, ma le sorrisi anch'io. Imbarazzato dalla sua presenza guardona continuai in un arpeggio improvvisato. Mi dava fastidio quella donna. Perchè non ci lasciava soli? Sembrava una madre nera che agguinzaglia la figliola. Ma intanto l'occhio mio divenne Margherita, che tra le braccia dell'amante già ammicca al nuovo. Posso vedere la terza?
A te che leggi non saprò mai dire, cosa successe dopo non ha parole, un brivido montava nella mano che sollevò quella Venere di legno antico, leggera, in modo inaudito, sembrò adagiarsi fra le mie braccia con riservato ardore, tremava lei o tremavo io? Il fiato corto e l'emozione fecero sparire quella megera impiantonata. Non c'era più, non c'era più nessuno, sparito il mondo. Non chiesi, e come potevo, le note da suonare, con quella grazia o sei te stesso o lascia stare. Ti guarda in faccia, ti preme contro il cuore, s'insinua fra le gambe, aspetta la tua passione. Tu temi quelle altezze, potresti incespicare, ti gira la testa non sai più dove andare. Respiri, calmo, ti lasci un po' andare, ascolti, ascolti bene.
Feci una cosa insolita, portai la sesta in re, poi non so dirvi altro, sarebbe qui impossibile.
Potrei allungare sconsideratamente questo racconto con giravolte e fulmini, ponti celesti o gole inabissate. A volte l'onestà è un obbligo, ed io mi fermo a questo punto, quasi fosse una corona al termine di una partitura, sulla soglia della musica, per rispetto a lei ed anche a voi.
Adesso è qui accanto a me, regala alla mia casa il suo profumo, ma quando la tocco le parole si trasformano e mi dispiace di non potervele far sentire.
sabato 2 marzo 2013
piccole felicità
Sono anni che non faccio movimento e,
data la non tenera età, sto accusando qualche cigolio alla spalla
sinistra, per non parlare del resto. Purtroppo ho una certa
incompatibilità con le palestre e i luoghi dove si fa fatica per
fare fatica, soprattutto al chiuso. Io devo divertirmi o distrarmi
all'aria aperta per fare fatica, altrimenti non se ne parla nemmeno.
Qui a Firenze abbiamo un fiume, poco
frequentato dai fiorentini perché puzza d'estate ed è pericoloso
d'inverno. Però ci sono due club di canottieri, uno vicino al Ponte
Vecchio e uno al ponte da Verrazzano, soprannominato da Terrazzano
per le insulse terrazze che lo agghindano. Il primo club è
fiorentinamente snob, saturo della borghesia locale, buona parte di
mia conoscenza e dalla quale è meglio stia alla larga se voglio
conservare il buonumore. L'altro club è invece chiaramente
indirizzato all'agonismo, un mio compagno di liceo lo frequentò nei
bei tempi andati e vinse addirittura una gara di campionato italiano. Ci vuol poco a
capire che non è un luogo adatto a me.
Per farla breve, tempo fa mi hanno
detto che c'era un minuscolo circolo di canoa subito fuori Firenze,
dieci minuti di auto da dove sono io, venti in bicicletta. Oggi ho
deciso di andarlo a vedere, ma nei paraggi nessuno sapeva dirmi
dov'era e nemmeno se esisteva. Cazzo, mi son detto, se esiste è
quello che fa per me. Dopo essermi perso per stradine amene, alla
fine l'ho trovato. Perfetto, sfigato, leggermente squallido, poco
frequentato. Due belle figliole giocavano a tennis in uno dei due campi a disposizione, più in là tre figure stese su un pratino a prendere il sole, dentro la sede il custode armeggiava con un distributore di bibite e due soci in accappatoio leggevano il giornale. Ho pensato che già amavo quel posto. La quota d'iscrizione è ridicola. Il presidente in
persona, un tipo che sembra uscito da una ciurma di pirati caraibici, con un occhio meraviglioso e l'altro grigio
cataratta (o di vetro???), mi ha gentilmente spiegato che è un circolo di sperduti e beati, o di beati perché sperduti,
ognuno fa quel che vuole, ci va quando vuole e addio belloni. Gli ho
chiesto che genere di attrezzatura dovevo procurarmi, e lui mi ha
guardato incredulo, poi ha alzato le spalle dicendomi che in canoa
potevo andarci anche vestito da ussaro se mi faceva piacere, per il resto
mi danno tutto loro, canoa, pagaia, salvagente e un calcio nel culo
d'incoraggiamento.
Sono un uomo felice, lunedì vogherò
con la lena di un bradipo, solcando il fiume in lungo e in largo,
tirando scapaccioni alle nutrie e pagaiate alle carpe.
Viva la canoa!
Tanto pioverà sicuramente.
domenica 24 febbraio 2013
Il cane, il bubbolo, la chitarra e il minimalismo
Ricordo che quando ero piccolo mio
padre ogni tanto cambiava auto, perché faceva molti chilometri, ma
su ogni auto c'era sempre la stessa piccola campanella (in realtà si
chiamava bubbolo), attaccata sotto lo specchietto retrovisore. Una
volta ero seduto dietro, mentre mio padre guidava e un suo amico
accanto a lui fumava. A un certo punto il suo amico, che a me stava
molto antipatico, chiese con aria di scherno a mio padre cosa
significasse quel bubbolo. Mio padre lo fece suonare gentilmente con
le dita e rispose: serve a ricordarmi che vengo dalla campagna.
Una battuta che, se ancora me la
ricordo, evidentemente mi colpì.
Quella campanella la conservo nella
memoria, non so più dove sia, ma l'altra sera l'ho udita fuori della
porta. Sono andato a vedere ed ho trovato un cane. Ci siamo guardati,
lui un po' mi ha annusato, io no, non ne avevo bisogno. Nessuno dei
due, almeno apparentemente, aveva altri impegni e quindi l'ho
invitato a entrare. Più o meno è andata così:
Ruhe: Un cane un po' timido ma anche
molto curioso, vedo che con fare guardingo ispezioni la mia casa
minimalista, anche se sarebbe più corretto dire minima.
Cane: Il minimalismo nella musica è
forte, è ipnotico. Secondo me quei compositori si facevano delle
canne da qui a Semprognano, hai presente dov'è? Ecco, prova ad
andarci.
R: Allora ci parli del minimalismo o ci
parli di lei?
C: Lei chi?
R: No scusa, che cavolo c'entra
altrimenti Semprognano col minimalismo? Chi c'è a Semprognano?
C: Una segugia irraggiungibile.
R. Allora ripeto la domanda, ci parli
del minimalismo o ci parli di lei?
C: Francamente preferirei di lei , ma
non riguarderebbe nessun altro.
R: Chi te lo dice? Sai quanta gente
cerca di scoprire come funzionano gli altri o se gli altri funzionano
come loro stessi?
C: Eccoci all'acqua, poi quando
scoprono che non è così son cazzi. A me non importa di trovare me
stesso negli altri, io sono io, mi basto e avanzo, m'importa di
andarci d'accordo con gli altri, anche se sono diversissimi da me,
questo è il bello. Nessuna discriminazione, salvo per gli imbecilli.
R: Sì, buonanotte, allora questo
minimalismo?
C: Non lo conosco molto, non mi
appassiona veramente, forse è invidia ma quel che ho ascoltato è
assai ripetitivo, gioca su piccole variazioni, suggerendoti di
ascoltarle meglio, di fissarti su piccoli frammenti, mentre intanto,
a seconda dei casi, si creano intorno delle scene che amplificano
ancora di più i particolari, ripetendoli come un mantra. E'
l'opposto della melodia, mi verrebbe da dire, la scarnificazione
della linea melodica, che viene ridotta quasi all'inesistenza. Ecco vedi,
accompagnare una melodia è come tesserle un tappeto sotto i piedi
man mano che avanza, è sostenerla nel suo ideale, nel suo sogno.
Oppure è costruirle intorno un
recinto... dentro al quale possa muoversi liberamente. Più il
recinto sarà ampio e più sarà libera. Fino ad abolire il
recinto... col rischio di vederla dissolvere nel nulla se il recinto
era il suo unico volto.
R: Le melodie sono pericolose, direbbe
qualcuno.
C: No, lo sono i recinti. A me sembra che i minimalisti
costruiscano splendidi recinti, senza niente dentro, o tappeti
ricamati senza nessuno che ci balli sopra, e questo può essere
divertente, hai visto mai. Chi lo desidera, se ne è capace, potrà
mettere nel recinto quello che vuole, o far danzare lungo il tappeto
la ballerina che desidera.
R: Ci vive una ballerina a Semprognano?
C: I cani sono più bravi di te a farsi
i cazzi suoi. Stavo dicendo, ah sì, i recinti.
I tappeti invece sono diversi, possono
essere lunghissimi e stretti come delle guide, possono curvare o
possono interrompersi, nel qual caso chi ci cammina sopra dovrà
bloccarsi all'istante. Sono tappeti volanti, sotto non c'è un
pavimento, stiamo parlando di musica.
R: Scusa, pensavo ad altro. Ah, sì,
quelli che chiamavo tappeti d'archi, Mahler era a mio avviso il
miglior tessitore.
C: Mahler non era un minimalista!
R: E chi ha detto questo? Che fai
ringhi? Oh bellino, hai le paturnie? Con chi mi stai scambiando? E
poi oh, si potrà pure pensarla diversamente da te no?
C: Diversamente è un conto, dire
cazzate un altro!
R: Ma infatti, la mia era solo una
memoria sulla parola tappeti, non volevo dire altro. Ecco, vedo che
un pochino hai scodinzolato, forse il tono della mia voce ti ha
calmato.
C: Io sono spesso spaventato o
spaventabile, è un grave difetto, ho poche certezze.
R: Allora ascolta queste note.
Mi sono alzato dal divano e ho messo un
cd con musiche di Leo Brouwer, Toru Takemitsu, Flores Chaviano,
Joaquin Clerch e altri. Conoscevo pochissimo questi autori e non
conoscevo il chitarrista, una carenza imperdonabile, per me
ovviamente. Ho guardato il cane con aria di provocazione, sperando
facesse qualche apprezzamento o che raccontasse un aneddoto.
Invece...
C: Tu vorresti che io parlassi di
musica, ma questo post è iniziato con la storia di una campanella,
un bubbolo, come questo che ho legato al collo e che solo tu hai
sentito, perché io non esisto.
R: E io con chi ho parlato? Se aspetti
che ti dica che parlo con me stesso aspetti parecchio.
C: Parli con la ballerina di
Semprognano.
R: Ma è nei miei sogni, non esiste, è
la musica che non riesco a scrivere, è quello che non riesco a
essere, è quello che non riesco a dire.
C: Bene, allora sei stato onesto, hai
scelto il cd adatto, attraversa mondi musicalmente e temporalmente
diversi. Quando si incidono cd come questo la scelta dei brani è
come una sceneggiatura, il filo, o meglio, il senso sono
fondamentali. Ricardo Gallén inizia col più classico degli
spagnoli, Joaquin Rodrigo, per chi non lo conoscesse è l'autore
dello strafamosissimo Concerto di Aranjuez, vada altrove chi non
conosce nemmeno quello! Poi Ricardo vola a Cuba (Gallén è cubano) e
ci propone un virtuosissimo Joaquin Clerch con “Guitarresca”.
R: Mai sentito nominare prima d'ora,
accidenti alla pigrizia!
C: Non sei a un esame, e non puoi
ascoltare tutta la musica del mondo.
R: No, ma dovrei ascoltarne molta di
più.
C: E diversa, anche la più lontana
geograficamente.
R: Che te ne pare delle sonate di Leo
Brouwer?
C: Stupende, sognanti, irriverenti,
sincere. Le avvicineri idealmente alle Children's Songs di Chic
Corea.
R: Non fare il mentecatto, sono due
cose completamente diverse, io le avvicinerei a tutto ciò che non
riesco a fare e che lui invece fa.
C: Oh, non preoccuparti di questo,
riconoscere ciò che si ama anche se non lo si può avere è una
prerogativa umana.
R: Per te funziona così?
C: Io amo ciò che ho, ma questo l'ha
già detto Tolstoj.
R: Ecco, ascolta, questo è Takemitsu,
ricordi? Kubrik scelse un suo brano per 2001 Odiseea nello spazio.
C: E' diversissimo, è tutt'altro da
allora, non ha fatto il furbo, si è messo in discussione, ha
camminato, ha cercato e non ha smesso di essere un musicista.
R: Ami la storia? Voglio dire i
percorsi, le trasformazioni.
C: Sono un cane, ho poca memoria,
tranne quella ripetitiva se mi insegni ad abbaiare a un tuo segnale.
La mia memoria vera è per risonanza, somiglia quasi a un istinto.
R: Grazie al cavolo, sei un cane, avrai
l'istinto no?
C: Dimentichi che non esisto.
R: Già.
C: Ecco, sta finendo il cd e cosa ha
scelto Gallén come ultimo brano? Il meraviglioso preludio n°5 di
Tarrega, una chitarra che intona con semplicità tutto il suo
luminoso ed erotico languore, tutta la sua dolcezza, tutta la sua
intimità.
Il cane se n'è andato, ho sentito per un po' il bubbolo tinnire nella notte, sempre più in lontananza.
giovedì 21 febbraio 2013
A braccio
“Io non sono uno scrittore, so
benissimo di non avere a che fare con quell'arte, o almeno non come
vorrei. Posso solo vagamente rendermi conto delle capacità e delle
conoscenze che occorrono a uno scrittore per sentirsi tale.”
“Cercare le parole, saperle trovare, o inventarle se non ci sono. Usarle per dare forma a un pensiero che ancora non ha contorni definiti e realizzarlo scrivendo. Questa è l'arte della scrittura.”
“Cercare le parole, saperle trovare, o inventarle se non ci sono. Usarle per dare forma a un pensiero che ancora non ha contorni definiti e realizzarlo scrivendo. Questa è l'arte della scrittura.”
"Quanto alla tecnica è sempre solo
necessaria e funzionale, evitando di entrare
nella stupida e fuorviante rivalità fra professionismo e
dilettantismo.”
" Per come la vedo io, scrivere non è un mestiere, è un modo di vivere e di pensare."
Con queste parole ******** terminò la
sua prima, unica e ultima partecipazione a un seminario di scrittura
creativa. Tornò a casa, chiuse definitivamente il suo blog e si stiracchiò soddisfatto.
Poi cercò una penna.
Poi cercò una penna.
giovedì 14 febbraio 2013
il n°7
L'ouverture Leonora di Beethoven è
proprio romantica, Ludwig ne ha scritte quattro versioni, era un vero
rimaneggione. Però dico io, questa Leonora, mica per nulla, ma che
coglioni!
Allora metto un quartetto di Dimitri,
mi diverto di più. Mi piace da morire l'incipit del n°7, è
micidiale! Forse ne ho già parlato, pazienza, mi ripeterò per dire
che bastarono quelle battute iniziali a farmi innamorare di
quell'uomo. Parapàparapàparapàparapàparapàpàpà- pàpàpà!
Avete idea di cosa significhi iniziare un quartetto in quel modo?
Significa sbattersene i coglioni dei preamboli e..., vabbè, non
voglio fare il cretino, giuro, ma è che davvero a volte, non so
quanto raramente o quanto spesso capiti, o sarà capitato a qualcuno
nella vita, di voler andare subito al nocciolo, al dunque, senza
troppe spiegazioni delle puntate precedenti, senza convenevoli, con
un'immediatezza quasi ingenua, attraversati da un brivido, col suono che prorompe
nudo e sfacciato, quasi ridicolo, che magari lì per lì ti spiazza se non hai
l'orecchio pronto e recettivo, ma è talmente bello da vincerti in
pochi istanti. Come dire... ecco, è quello che cercavo, è quello
che andava detto!
Le sue dissonanze diventano
meravigliose perché sono sostenute da un ritmo stupefacente che
aiuta anche l'orecchio inesperto, stuzzicandolo e guidandolo, a
entrare nel discorso. Verrebbe da dire che ne vince l'ottusità e la timidezza,
dell'orecchio voglio dire, o l'isteria e la
presunzione, a ciascuno il suo, sempre di orecchio, s'intende.
Il secondo movimento invece è
pazzescamente malinconico, si affaccia sulla tristezza da una finestra
di dolore, per la perdita della moglie (madonna bona, o questa di
dove l'ho tirata fori? Gliela rivendo a Baricco se mi paga bene).
Penso però che sarebbe riduttivo liquidare il movimento così, diventerebbe un
quadretto per gente sorda col fazzoletto in mano, mentre ha una tale finezza di suoni e di armonie da scandagliare
il nostro udito fino alle sue più profonde sensibilità.
Se si interpreta così il secondo
movimento allora il terzo cos'è? una frenesia iperattiva, un delirio
euforico o lo scatenarsi di una rabbia accecante? Di quelle che
rompono tutto ciò che trovano sotto mano? Per poi placarsi,
riprendersi, separarsi, uscire e vivere in un'altra luce il primo
movimento?
Visto così farebbe pensare a un
cerchio, a un canone circolare sui generis. Sarebbe terribile nella
vita, un'allucinante coazione a ripetere, mentre invece con la musica ci si può giocare (per intendersi
un canone circolare è una musica con la struttura tipo Fra' Martino
campanaro, la fine è uguale al principio). Poi penso alle parole e
mi accorgo che il senso del dire “la fine è uguale al principio”
può essere quello che l'inizio di ogni nuova cosa è sempre per
separazione dal passato, bellissima idea (infatti non è mia). Però
se poi si rifanno pari pari le stesse cose di prima allora si è
scemi!
La differenza sta tutta lì.
La differenza sta tutta lì.
Che pensieri si possono fare ascoltando
questo quartetto?
Forse questi, almeno io.
domenica 3 febbraio 2013
Des Knaben Wunderhorn
-->
I vostri commenti a volte sono dei veri “Knaben Wunderhorn” (scusa Mahler se approfitto un po'
del tuo genio artistico).
Ce n'è uno di Amanda nel post
precedente che merita un altro post per il quantitativo di pensieri
che ha suscitato.
Stavo cenando con un'amica e le ho
raccontato la storiella del ricercatore e dei ragazzini in Africa
(tribù Zulu per la precisione), nonché il laconico commento di
Amanda al mio post. La mia amica si è sorpresa dello scetticismo di
Amanda e ha detto che, anche se la storiella fosse una sòla (come
l'ha definita Amanda), sarebbe comunque una bellissima immagine
letteraria e sarebbe comunque bello pensare che da qualche parte nel
mondo la gente possa vivere così.
Ecco, tutto questo mi torna a fagiolo per mettere due asterischi al precedente post.
Quale dei due preferite?
(*): Non tutti i software vanno
d'accordo, ma conta chi procura maggiori benefici alla comunità!
(*): Non tutti i software vanno
d'accordo, ma vince chi si accaparra tutto per primo!
hardware & software
Anni fa assistetti a un dibattito in
cui un docente di neuropsichiatria paragonava il cervello
all'hardware e il pensiero al software. Purtroppo era un incallito
organicista e non capiva un cazzo di pensiero umano.
Nel post precedente avevo messo la foto
di un tramonto con in sovrimpressione una partitura di Bach. A dire
il vero prima ho messo la foto e poi ho scritto il titolo del post,
perché in effetti il motivo di quella foto me lo son chiesto dopo.
Vediamo un po' se riesco a confondermi
più di quanto già non lo sia.
Se penso al tramonto, quello della
foto, esso è una cosa fisica, reale, fatto di terra e cielo e, anche
se non sono percepibili nella foto, di odori e suoni che ricordo
perchè la foto l'ho scattata io. La partitura invece, anche se è
scritta su un foglio di carta fisico, esprime un'idea, un modo di
pensare, è il prodotto del pensiero e della fantasia. Posso quindi
prendere in prestito la foto del tramonto come immagine dell'hardware
e la partitura per quella del software.
E' ovvio che se non c'è hardware non
possiamo installare un software, ma la sottigliezza è nella parola
installare. Infatti sono in molti, purtroppo, a pensare che il
software ce lo abbia installato Dio, che è un software senza
hardware, un'idea astratta senza tempo né corpo. Ma per fortuna sono anche moltissimi a pensare che il software nasca dal corpo e che si
sviluppi grazie ai rapporti che abbiamo, all'ambiente e alla cultura
in cui viviamo. Resta però in molti la fissazione a volersi
domandare se sia preinstallato o no, che è un atteggiamento
metodologico di pensiero ancora religioso perché non prende in
considerazione il divenire della materia, in altri termini non prende
in considerazione la nascita del pensiero dalla realtà biologica e
quindi è un pensiero che tende sempre ad operare la scissione fra
anima e corpo. Gli organicisti, come quel docente, vedono invece solo
la materia e finiscono per annullare il pensiero perché pensano che
sia un effetto secondario della realtà fisica e quindi, anche loro,
operano una scissione.
Per me no, e sostenerlo implica la
manifestazione, il sostegno e la difesa del mio software (ossia del
mio modo di pensare), nonché della sua origine scientifico-culturale
che è in continua trasformazione ed evoluzione, intendendo con
questo il fatto che potrò sempre cambiare software se ne troverò
uno più intelligente e più umano. Solo i cretini infatti non
cambiano mai idea quando ne trovano una migliore, perché non sono in
grado di riconoscerla.
In conclusione dobbiamo lavorare molto
per migliorare il nostro software, scegliercene uno buono, valido,
privo di distorsioni, di negazioni, di annullamenti, di bugie, di
false credenze.
E la cosa non è affatto facile,
soprattutto è difficile liberarsi di un software culturale che
abbiamo bevuto fin da piccoli e che si è installato come un virus
nei nostri pensieri. Come il software del peccato originale (cazzo
tiro fuori sempre quello, devo avere un bug!) o quello dell'homo
homini lupus (idem...).
Ieri una mia amica, quando le ho detto
il nome del mio nuovo sistema operativo (che non cito per non fare
pubblicità che potrebbe venir male interpretata) mi ha raccontato
una storiella a proposito di quel nome. Uno studioso occidentale era
in Africa per delle ricerche sul comportamento di alcune tribù. Ad
un certo punto disse a dei ragazzini che aveva messo del cioccolato
su una pietra distante un centinaio di metri, chi ci arrivava per primo
poteva prendersela. Lo studioso rimase basito quando vide che tutti i
ragazzi corsero verso la cioccolata tenendosi per mano e, quando la
raggiunsero, la divisero tra loro.
Bach è di tutti, è il massimo epilogo
della musica antica e al tempo stesso la piattaforma di base per la
musica moderna. Potevo metterci anche Beethoven o Mozart, ma pure
Caravaggio o Van Gogh e perchè no un sonetto di Shakespeare o una
pagina di Saramago? Oppure una scultura del Canova, o la teoria di
Copernico, o quella di Einstein o magari una lettera d'amore di una
ragazza.
Sono tutte ottime idee.
A ognuno il suo software preferito,
l'importante è non sceglierne uno farlocco!
sabato 2 febbraio 2013
cosa c'entra Bach col tramonto del sistema operativo?
Circa un anno fa morì il mio
portatile, fu una morte quasi naturale, se ne andò con un sacco di
foto e file vari, abbandonandomi per sempre. Aveva cinque anni e, nel
mondo della tecnologia, pare sia un'età oltremodo avanzata. Io però
non avvertivo nessuna particolare obsolescenza in lui, ma devo anche
ammettere che col computer ci faccio ben poco, ci scrivo le mie cazzate, mi collego,
leggo qualche blog, controllo le e-mail, guardo e ritocco un po' le
foto, faccio il solitario e poco altro.
A pensarci bene ci sono persone che
spendono cifre assurde per avere l'ultima i-stronzata che, dopo
magari sei mesi, diventa obsoleta. Rincorrono la carota
tecnologica per tutta la durata del loro portafogli. Ma questo
rientra nelle sacrosante libertà individuali e non me ne importa
niente.
Ho passato un anno con un portatile in
prestito, uno di quelli piccini piccini, dove non si vede
praticamente un cazzo e le pagine ti tocca sempre farle scorrere
perché in una schermata sola non c'entra quasi mai nulla.
Ma andava bene lo stesso.
Però la microsoft sfornava
aggiornamenti sempre più pesanti , studiati appositamente per farti
invecchiare il computer e il piccino si affaticava, essendo
oltretutto già carico di un sacco di programmi che, a ben considerare,
non servivano a un cazzo o erano serviti una sola volta e dimenticati lì. Oppure aveva
quattro programmi per fare la stessa cosa. Roba da matti! E poi
c'erano diavolerie strane, dalle sigle incomprensibili, per cui tutto
quello che un fagiano come me poteva fare era “fidarsi” della
loro utilità. Per non parlare dell'antivirus che si aggiornava in
continuazione rallentando le funzioni del piccino.
Insomma, per non dilungarmi troppo in questo inutile post, giorni fa ho deciso di
comperarmi un nuovo notebook e, già che c'ero, ho pensato bene di
fare il ganzo e comperarlo senza sistema operativo. Della serie
“Basta con questa egemonia e questo duopolio Apple-Microsoft!!!”
Beh, questa alzata d'ingegno mi è
costata due giorni di bestemmie, di quelle ben articolate, quelle
che vengono dal profondo, che si legano addirittura alla metodologia
di pensiero, insomma quelle universali, cosmiche, onnicomprensive,
anche poetiche se vogliamo, o ecologiche ,o animaliste tipo: fino dall'alba il nostro pensiero è
rivolto agli animali e in particolar modo a quel cagnaccio di ****!!!
Devo ammettere che le bestemmie, se
tirate bene e piazzate al momento giusto, non sono volgari ma anzi
sortiscono effetti miracolosi. Infatti adesso il mio nuovo notebook,
col nuovo sistema operativo, funziona perfettamente, è snello,
velocissimo, non ha intoppi né dubbi e se ne fotte dei virus.
Potenza della bestemmia o della
ribellione all'egemonia?
Pian piano imparerò ad usare al meglio
questo nuovo sistema, ma intanto fanculo agli antivirus e a tutti
quelli che su queste trappole ci fanno un sacco di soldi. Qui, a
parte il computer, è tutto gratis, tutto condivisibile, tutto “open
source” per dirla con gli esperti!
Non è una cosa importante, è una
piccola cosa ma, come tutte le piccole cose, può cambiare molte
altre cose.
Questo è il primo post col nuovo pc e
come foto ho scelto di sovrapporre una partitura di Bach a un
tramonto di qualche sera fa.
venerdì 25 gennaio 2013
formelle
Passavo in piazza del Duomo quando ho notato, alla base del campanile di Giotto, tre formelle interessanti.
Esse ci parlano dei propositi di un pastore che, dialogando al mattino con le sue pecore, dice:
icchè fo' oggi ragazze,
mi fo' una mega canna,
o mi scolo una botte di vino?
domenica 20 gennaio 2013
tavolo
Potrei scrivere di un tavolo, sì, perché no?
Non so per quale motivo riesco sempre a riempire i tavoli di casa con un sacco di cose, le più svariate.
Forse i tavoli sono un po' come la mia vita.
E ogni tanto mi accorgo che sono troppo incasinati e devo riordinarli.
Il fatto è che ogni cosa che tolgo dalle tasche o dalla borsa o che sposto da un luogo ad un altro finisce sempre per essere parcheggiata a tempo indeterminato sul primo tavolo a disposizione.
Capitano poi quei momenti in cui osservo il tavolo e lo sento ostile, non più corrispondente alla mia immagine di tavolo perché non è più un tavolo, è un casino, una scialuppa di oggetti alla deriva, un manifesto della mia pigrizia e indolenza, un catalogo del disordine, una fotografia spietata della mia vita.
Quando finalmente prendo il toro per le corna e decido di mettere ordine, allora la cosa diventa comica e assume l'aspetto di una sorta di fantautoanalisi interpretativa. La lotta interna fra l'indolenza e il desiderio di riscatto dal disordine scatenano effetti collaterali che si propagano per tutta la casa se non riesco a trovare una giusta collocazione agli oggetti che tento di mettere al loro posto, per il fatto che se sono sul tavolo vuol dire che un loro posto non ce l'hanno o, se ce l'hanno, che non funziona o, se funziona, che non lo voglio far funzionare.
Ad esempio i grossi volumi dell'enciclopedia della musica, quella della UTET, sono stato costretto a metterli in un ripiano sul soppalco, accanto al letto, perché sono molti, alti e troppo pesanti per le mensole che mi sono costruito di sotto, ma quando ne porto giù uno per leggerlo esso rischia di rimanere sul tavolo per settimane o addirittura mesi, denunciando così l'atroce fallimento della mia capacità organizzativa. Inoltre c'è sempre il rischio che, per non fare la fatica di togliermi le scarpe (sul soppalco ci si va solo scalzi, è un omaggio alla cultura giapponese e quindi imperativo!) io rinunci a consultare l'enciclopedia per verificare se quel che mi ricordo è una cazzata oppure no. Se ne evince che il numero di cazzate non verificate che scrivo sulla musica cresce a dismisura se non mi decido ad usare delle pantofole quando sto in casa. Ma anche la questione delle pantofole, che detesto cordialmente preferendo degli zoccoli chiusi, mi incasina la vita domestica, perchè avendo il giardino tutto intorno a casa dovrei toglierle ogni volta che esco fuori per i più svariati motivi, annusare l'aria, ascoltare il ruscello, mandare affanculo il gatto Ceppicone, fumare una sigaretta ecc. e calzare delle calosce o delle scarpacce adatte al terreno nel periodo invernale.
No, troppo troppo complicato per me, oltretutto aggiungerebbe l'ulteriore problema logistico del "dove cazzo le lascio poi?".
Potrei andare avanti all'infinito con queste sciocchezze ma la smetterò subito perchè il tavolo adesso è in ordine. Non racconterò il motivo di questo avvenimento perché non lo conosco, so solo che è successo e che quindi qualcosa dentro di me si è destato e ha sfanculato quel casino.
Sì, ma adesso?
Come le rughe sul mio volto, che sono apparse lentamente e impercettibilmente ma, alla fine, sono diventate evidenti, so che le cose pian piano inizieranno di nuovo a tornare sul tavolo, come antichi amanti in cerca di un ripasso dell'identità del loro amore perduto, come gatti in cerca del luogo più comodo, come tradizioni inutili ma stupidamente reiterate, come impronte sulla sabbia in attesa di un'onda che le cancelli.
Eccoci!
Cosa cancella gli affetti e i vissuti? E sono davvero cancellabili? Pare di sì.
C'è chi parla di rimozione, come fossero auto in divieto di sosta, ma c'è anche chi ha parlato di sparizione. La prima è una questione spaziale, troppo sciocca e superficiale per essere applicata alla mente umana. La seconda è temporale, prima c'è una cosa e poi non c'è più e, viceversa, prima una cosa non c'era e poi c'è.
La conoscenza delle dinamiche psichiche può illuminarci sul concetto di
creatività.
Spariscono la farina e l'acqua e compare il pane, sparisce il seme e compare l'albero, sparisce l'albero e compare un tavolo.
Sparisce la bambina e compare la donna.
Sparisce la stupidità violenta e compaiono le persone libere e sane.
Spariscono le persone libere e sane e il mondo si riempie di stupidi e violenti.
Qualcuno potrebbe invocare la dialettica, ma con un cretino e con un violento non esiste possibilità dialettica.
Dal mio tavolo sono scomparse un sacco di cose, ma non tutte sono sparite, la maggior parte le ho solo dimenticate. Quelle che sono sparite non potranno mai più tornare, a meno che qualcuno non sia così creativo da farmele reinventare.
sabato 12 gennaio 2013
Notizie e contronotizie
Capita di abbracciare con entusiasmo delle notizie per poi accorgersi che forse, e ripeto forse, celavano qualche farloccata. La soluzione migliore, nel mio caso, è quella di mettere tutto in tavola, in modo che ognuno possa rendersi conto di quanto sia difficile e penoso fidarsi di chicchessia. Qualcuno, per non sbagliarsi, si astiene sempre e comunque dal prendere parte a qualsivoglia discussione e dall'esprimere una qualsiasi opinione. Questo atteggiamento mi puzza tanto di ignavia, ma fa parte del gioco.
Il mio atteggiamento è diverso.
Dunque la notizia è questa, anzi la contronotizia.
Ho appreso da un'altra carissima amica (è praticante giornalista, se mi si passa l'espressione, ossia rientra in quella categoria di lavoratori sottopagati con la scusa della formazione) la quale pare assai informata sugli avvenimenti nel territorio dell'alto milanese, che la storia a cui faceva riferimento il mio precedente post sia montata ad arte.
Immaginatevi la mia sorpresa.
Sembra che la vicenda dei ricatti, delle pressioni e del proiettile inviato alla redazione sia una montatura fatta ad arte per chiudere il settimanale senza pagare un euro ai dipendenti.
Mi sono domandato cosa c'entrano i ricatti con gli stipendi, ossia che una cosa sono le intimidazioni ed un'altra sono le casse del giornale.
Possibile che davvero un settimanale che si vanta di essere indipendente e alternativo possa ordire una simile nefandezza? No, dico, uno rimane interdetto, non sa più cosa pensare, non sa più se è falsa la notizia o la contronotizia.
Sospendo doverosamente ogni giudizio, limitandomi per onestà a rendere partecipi del mio stupore anche gli amici di blog. Concludo però che, in ogni caso, il senso del mio precedente post non si sposta di una virgola: la libertà di stampa e (aggiungo ora) la qualità del nostro giornalismo sono in coma profondo.
martedì 8 gennaio 2013
sparizioni
Una cara amica, direttrice di un ottimo e importante settimanale, segnalava l'ennesima chiusura di una testata giornalistica indipendente. Qui il link ad un articolo che racconta un po' di cose.
Qui un altro link interessante.
Questo mio picciol post vuole essere una goccia in soccorso di una minoranza nel mare di stronzate che la maggioranza dei media ci propinano.
Dal momento che i blog sono divenuti forse, ma forse, l'ultimo baluardo della libertà di stampa, nonché della libera circolazione del pensiero (sano o, ahimè, sballato) penso che sia doveroso, ogni tanto, distogliere l'attenzione dalle mie cazzate personali per indirizzarla su temi più urgenti e importanti.
Una piccolissima testata, dirà qualcuno.
Sì, ma è con la sparizione dei piccoli che i colossi creano il deserto intorno a loro, fino a quando nessuna voce sarà più in grado di esprimere un differente punto di vista.
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