venerdì 30 marzo 2012

a proposito di nomi...



C'è un tipo qui a Firenze che si chiama come me e per di più suona e scrive canzoni. Alcuni che non mi conoscono personalmente mi hanno scambiato per lui. Che palle l'omonimia, io mica scrivo quel genere di musica. Allora, per far contenta un'amica che mi ha chiesto di ripubblicarlo, riciclo un raccontino che mi divertii ad inventare qualche anno fa. So bene che è un po' lungo e non ho certo la pretesa che qualcuno perda il suo tempo a leggerlo, ma siccome il racconto s'impernia sull'originalità dei nomi mi piace l'idea di metterlo sul blogghino.


Dirio e la novella a braccio (ed io abbraccio la Novella)



Dirio, si chiama Dirio! Disse incazzato all'impiegato comunale che non ne voleva sapere di accettare quel nome.
Dario, dio bono, Dario! Rispondeva altrettanto infervorato l'impiegato comunale, grasso, rosso e sudato dentro una camicia che sembrava persa in una piscina.
Alle una e zero cinque del sedici luglio millenovecentosessantatre una disputa aveva bloccato l'ufficio comunale del paese di ****!
Non c'era verso di venirne a capo.
Possibile che lei mi debba far perder tempo con le sue idee! Continuava a sbraitare da dentro la piscina l'impiegato.
Possibile che io non possa chiamare i'mi' figliolo come mi pare! Che l'ha fatto lei? No! E allora scriva e la faccia finita o chiamo il sindaco, tanto lo so che l'è di sopra a farsi l'Argia prima di andare a desinare!
A volte i piccoli paesi sono un microcosmo delle meraviglie. Per alchimie inspiegabili vi si ritrovano i nomi più strani, imposti dai genitori ai figli con l'intento di celebrarne già il futuro, meticolosamente immaginato e disegnato in un tortuoso labirinto di sinapsi che porterà nel tempo a venire le sue nefaste o caritatevoli conseguenze sui poveri diavoli che dovranno portare quei nomi.
Argia, poveraccia, togli la g, metti una p ed ecco fatto il danno. Eppure la dolcissima proprietaria di quel disastro fonetico era effettivamente nell'ufficio del sindaco, intenta in una intima e delicata operazione che decenni più tardi avrebbe destabilizzato nientepopodimenochè la Casa bianca. L'Argia... che solo superficialmente e malevolmente qualcuno avrebbe potuto identificare come l'antesignana delle stagiste americane in un paesino della campagna toscana, nel millenovecentosessantatre alle una e zero cinque del sedici di luglio.
Nello stesso momento Olinto Brachi, detto Polvere, tentava di lanciare verso il futuro il suo primogenito, Dirio! Non Dario! Già ci sono gli scambi delle culle, vogliamo anche aggiungerci quello dei nomi? O vogliamo far battezzare i nostri figlioli da un coatto impiegato comunale che per di più opera dentro una piscina? No! Polvere questo non lo poteva sopportare, Dirio era i' su' figliolo e avrebbe difeso il suo nome con la propria vita. Aveva passato notti insonni a vegliare la moglie durante la gravidanza, timoroso che la Gilda potesse far sognacci a causa del suo russare sismograficamente rilevante. E in quelle notti aveva pensato a quella creatura che stava per venire al mondo, il suo figliolo, mica uno qualunque. Dirio! Ripercorrere le tappe del pensiero che spinsero Polvere a quella sintesi, a quella fusione, a quel capolavoro dell'umana ricerca del sublime è impossibile. Per quanto ignorante boscaiolo Polvere era un attento ascoltatore dei discorsi che la sera gli uomini facevano al bar Centrale del suo paesino, e già il fatto che si chiamasse bar Centrale in un paesino di mille anime la dice lunga, ma queste sottigliezze non sfiorano e non possono sfiorare i pensieri di un novello padre. In quelle notti insonni Polvere aveva elaborato una splendida fusione fonetica di elementi quali Sirio, fulgida stella che spunta nel cielo invernale, con iridescente, parola, quest'ultima, di cui Polvere non era certo di aver colto il significato ma, non avendo ancora l'udito devastato dalla motosega, ne amava il suono evocante i ruscelli montani all'alba, quando la luce radente scintilla in una miriade di colori  carezzando l'acqua che sgorga dalle sorgenti.
Intanto l'Argia "la bocca sollevò dal fero pasto". Non la forbì al capo del peccator perchè peccato non c'era, nè profitto alcuno, vuoi economico o d'avanzamento... ché non siamo in America, siamo in un paesino di mille anime sull'appennino toscano. L'Argia era una donna sola, libera, passionale, sincera, devota alla sua missione di assistente tuttofare del comune. Faceva le pulizie negli uffici e provvedeva a cucinare per il primo cittadino, di cui aveva una certa ammirazione, ritenendolo uomo colto, forte e nobilmente chiuso nella sua vedovanza, che però non gli impediva certo di farsi sbottonare la patta dei pantaloni.
Dunque, mentre il sindaco sorrideva riconoscente all'Argia pregustando già il pranzetto che l'aspettava, sentì giungere dal sottostante ufficio un gran vociare. Non era possibile che a quell'ora e con quel caldo ci fosse da perder tempo con qualche contadino che veniva a sbraitare contro le insolvenze comunali, magari per dirgli che l'acqua per irrigare il suo orto era più importante che per lavare i pavimenti... questi contadini! L'Argia si affacciò sull'uscio e se la filò portandosi via granate e cenci da dare in terra, il sindaco scese di sotto controllandosi i pantaloni.
Allora Sirio! Continuò imperterrito l'impiegato comunale mentre la piscina era al limite del traboccamento.
Guarda imbecille che vengo di là e ti tiro i' collo! Fece minaccioso il boscaiolo Olinto Brachi mostrando una mano nodosa e forte a quella massa d'acqua.
Il sindaco si avvicinò a Polvere e cercò di calmarlo, poi rivolto all'impiegato chiese ragguagli sul problema, dopodichè, resosi immediatamente conto dell'inutile controversia, incenerì il prolisso impiegato con uno sguardo colmo di risentimento per avergli impedito di essere già con i piedi sotto la tavola, a lui che alle una e quindici voleva desinare ed erano già le una e venti e tutti sanno che i tortelli al sugo di cinghiale non tollerano dilazioni, cazzo s'incollano! E quindi intimò al grondante ciccione di consegnare il certificato col nome richiesto da Polvere.
L'impiegato fece spallucce e scrisse nel documento quel nome che gli era già costato un ettolitro abbondante di sudore, ci sbattè con violenza risentita il timbro comunale e consegnò il foglio prima che si trasformasse in un impacco gocciolante. Polvere se ne andò vincitore di quella prima battaglia in difesa del buon nome del figlio, il sindaco corse dai suoi tortelli e l'impiegato finì di annegare in santa pace.
Pare che le giornate mescolino in sè vari aspetti della nostra vita, per quanto breve o lunga possa essere, e se sappiamo "ascoltare" bene quel che viviamo ci troveremo tesori su cui meditare.
Il sindaco gustava finalmente i suoi tortelli, fugate le ombre per le quisquilie fra l'impiegato e Polvere, tornava a rilassare i muscoli che si scioglievano come i tortelli in bocca, l'Argia aveva molti meriti in proposito. Generosa e ottima cuoca, esaudiva i desideri e i bisogni dell'uomo, senza imporre quel ricatto convenzionalmente chiamato matrimonio. Il sessantotto doveva ancora venire, ma covava persino lontano da Berkley, persino in un paesino di mille anime perduto nell'alta campagna toscana, e l'Argia era, come tutte le vere donne, luce di ogni rivoluzione, indipendente da qualsiasi ideologia, concretamente legata alla vita, ribelle ai dettami dei preti, laici o meno che fossero.
Il figlio di Polvere cresceva sano e ben allattato dalle colline odorose e colme di latte di mamma Gilda e Polvere intuiva che quell'amore avrebbe dato buoni frutti. Dirio, diceva fra sè il boscaiolo, un giorno verrai con me a vedere le sorgenti all'alba, e fra quelle colline avrai memoria di quelle che ti godi adesso. Polvere aveva l'animo poetico, aveva idee e immagini precise, e di conseguenza anche i nomi. Forse proprio per questo s'era inventato il nome del figlio, e non ci trovava nulla di strano in quel nome, anzi pensò che, se proprio lo doveva ammettere, non era più strano di altri, come quello dell'Argia ad esempio. E mentre pensava questo si domandò perchè la gente prendesse i nomi già fatti invece d'inventarli. Per onorare i morti? Per far sì che almeno nel nome un nonno o un bisnonno esistesse ancora sulla terra? Che sciocchezza! Che senso aveva chiamare Roberto il proprio figlio, che era individuo unico e irripetibile, e con quel nome renderlo un po' uguale a migliaia di Roberto in giro per il mondo? Che senso aveva legare al nome Roberto l'unicità che, udendo quel nome, quel suono, si sarebbe voltato rispondendo al richiamo. Vide le migliaia di Roberto voltarsi contemporaneamente al suono emesso, ma tutti diversi, e allora quale Roberto stava chiamando quella voce e quel suono? Quale Roberto avrebbe dovuto voltarsi a buon diritto, mentre tutti gli altri dovevano ignorare il richiamo? C'è poco da fare, Polvere era un indipendente per natura, un individualista, anche un po' lupo solitario ma non certo un asociale. Quello che cercava lui nelle persone era un po' quello che cercava l'Argia, ovvero l'autenticità, la presenza, l'affetto. In due parole l'essere umano. Quel suo lavoro fra i boschi gli permetteva di pensare, il suo era principalmente un impegno fisico, poiché al di là di tagliare per il verso giusto un albero e valutarne bene la direzione in cui poteva farlo cadere, il resto era fatica fisica, tanta fatica, che lui cercava di ignorare pensando.
Il pensiero di Polvere era concreto ma non banalmente materialistico, la sua fortuna era quella di non avere troppi ghirigori in testa e anche di non essersi lasciato confondere dai sottili veleni che si nascondono nelle pieghe di tanti discorsoni. Aveva studiato poco ma ci sono cose che non s'imparano, il modo di essere personale è connaturato al carattere ed il carattere è un fatto di nascita oltre che di buoni o cattivi rapporti, il cervello poi gli funzionava, eccome. Sapeva ascoltare, e se una cosa gli "suonava" la faceva entrare. Nonostante il suo ruvido lavoro aveva una sensibilità speciale. Una sera Polvere osservava la sua Gilda allattare Dirio. Seduta sul canto del fuoco avvolgeva tra le carnose braccia e i prosperosi seni il suo bambino. Si guardavano negli occhi, persi l'uno nell'altra, incantati in un dolce fluire di latte e immagini, di calore e affetto. Polvere pensò al fondersi di sostanza e colori negli occhi di Dirio. Vide forme indefinite, quasi un comporsi di bianche e morbide sculture in una creazione artistica. La sonnolenza chiudeva a poco a poco i suoi occhi di boscaiolo, ancora pieni di abeti e castagni, confondendosi col candore di quei seni, vagando con la memoria attraverso gli occhi del figlio per entrare in un sogno, un sogno di uomo.
Sentì mani calde carezzargli il volto, vide labbra sorridere ed aprirsi, poi i fianchi e il sesso di una donna e il desiderio di entrare in lei. Ed ecco che lei lo avvolgeva morbidamente dentro di sè e tutto sembrava un dialogo senza parole, un ascolto del corpo e degli occhi, un rispondere e un domandare, un latte invisibile che scorreva internamente, calmo, fino a dissolversi in un bagliore opalescente.
****************************
L'Argia invece fu profondamente turbata da un episodio apparentemente di poca importanza, ossia un antipatico turista le aveva detto che il suo nome era uguale a quello di un ragno velenoso. Un ragno che si trovava in sardegna.
La sciagura si abbattè sul piccolo comune di ****, e soprattutto sulla sede del comune, e ancor di più sul sindaco e i suoi pranzetti, con preludio o gran finale a seconda delle circostanze.
Come la vita, che quando scorre felice fra le colline ci abitua ad un benessere a cui non si fa più caso, così il dirompente e devastante turbamento di tale equilibrio mise in esagerato subbuglio le anime poco avvezze a tali sconvolgimenti.
L'Argia entrò in depressione!
Piangeva in continuazione e trascurava i propri doveri e i propri piaceri, oltre a quelli del primo cittadino. In pochi giorni la polvere (minuscolo) invase la sede del comune, il sindaco si vide costretto a mangiare i panini del bar centrale, l'impiegato si ritrovò impiastricciato di laniccio che s'attaccava alla sua pelle come le piume al miele.
Si fece una riunione straordinaria, l'Argia andava curata!
Diffidenti, per tradizione, nei confronti delle nuove mode culturali, o forse sicuri che certe mode nascondono solenni prese in giro, i membri della giunta comunale decisero di rivolgersi al veterinario invece che allo psicoanalista. Del medico condotto poi avevano poca fiducia perchè non guariva mai nessuno con le sue medicine. A sua discolpa va precisato che i casi in contenzioso riguardavano vecchi novantenni o gente rimasta sotto un trattore. Insomma più che un medico ci sarebbe voluto un santone.
Il veterinario, uomo esperto e pratico, andò dall'Argia quasi come si va da una mucca, le palpò i seni, la guardò negli occhi, le dette una manata sulle cosce e disse: Argia, lei non è un ragno velenoso, ma una bella femmina sana e robusta, la si svaghi un pochino, prenda queste pasticche prima di andare a letto e non ci stia troppo a pensare, qui siamo in toscana e l'unico ragno velenoso che conosco l'è il volterranino.
L'Argia si calmò un pochino grazie alla sicurezza dell'uomo più che del medico degli animali, ma la sua stima per il sindaco calò drasticamente, dato che lui non aveva avuto la sensibilità di parlare con lei prima che col veterinario. Andò a casa e dormì.
La mattina dopo si svegliò di buon ora con spirito di ricerca e, fatto veramente insolito, entrò nella biblioteca del comune. Insolito non perchè vi entrasse, lo faceva regolarmente per spazzare e spolverare, ma perchè lo fece senza i ferri del mestiere. L'Argia voleva leggere! Trovò il dizionario enciclopedico e, con una certa lentezza, arrivò alla voce Volterra: cittadina toscana ecc. ecc. manufatti in alabastro ecc. ecc. di ragni non se ne parlava. Uscì risoluta e corse a casa a vestirsi per bene, si truccò, prese la borsa e andò alla fermata della corriera, destinazione Volterra, il più lungo viaggio della sua vita.
Se io sono un ragno e per giunta velenoso, voglio incontrare quello di volterra e sentire da lui come stanno le cose. Vaffanculo al veterinario e alla giunta comunale.
Volterra è bella, ma questa non è una guida turistica e chi scrive non è Saramago (nota polemica OT). Quando scese dalla corriera l'Argia entrò nel bar della piazzetta e chiese informazioni sul pericoloso ragno. Il barista, sciacquando i bicchieri, le disse che bisognava andare nei campi per trovarlo, e che era piccolino, con dei puntini rossi sulla schiena.
Occorre spiegare, ma sarà difficile, il percorso mentale dell'Argia. Era una donna talmente semplice e immediata, talmente onesta e ingenua che non poteva credere di essere davvero velenosa e sapeva in cuor suo che era stata solo una malignità della gente, oltre che di quel turista maledetto, quello sì che era stato velenoso, a chiamare un ragno con un nome di donna. Quando seppe del volterranino pensò ad un'altra ingiustizia, s'immaginò un pover'uomo perseguitato dal proprio nome e dalla maldicenza gratuita dei compaesani. Inventarsi l'esistenza di quell'uomo e identificarsi con lui fu un lampo ...e la cosa stava assumendo le caratteristiche di un delirio.
L'Argia andò per i campi.
Nelle pianure circostanti si raccoglievano i pomodori e quell'anno ce n'erano così in abbondanza che le ceste ricolme rimanevano a marcire in mezzo alle stoppie.
In uno di questi campi c'erano alcuni braccianti in pausa dopo il desinare. Un paio di loro scherzavano tirandosi dietro i pomodori sotto un sole accecante. Lei lo vide! La camicia bianca tempestata di macchie rosse sulla schiena. Il cuore le balzò in gola. Si sedette su un paracarro, all'ombra di un eucalipto, e rimase incantata nel vedere l'agilità e l'allegria dell'uomo.
Purtroppo alle donne non era consentito di muoversi liberamente (e non solo a quei tempi), tantomeno di sedersi su un paracarro lungo una statale senza essere scambiate per Collaboratrici (perchè di fatto collaborano) Ecologiche (niente è più naturale della loro merce) d'Intrattenimento (variabile di volta in volta in base al prezzo) , e la sua figura non sfuggì di certo ai braccianti in pausa. Due di essi le si avvicinarono con fare strafottente e iniziarono una trattativa a cui l'Argia non era per niente disposta. Ne nacque un tafferuglio dove una borsetta si abbatteva pesantemente sulla testa del più sfacciato dei due, mentre l'altro se la rideva aizzando l'Argia con apprezzamenti ben più pesanti della borsetta. Gli uomini sanno essere ignobili quanto sublimi. Sopraggiunse quello dalla camicia macchiata di rosso e mise al loro posto i due "bravi ragazzi". Invitò gentilmente l'Argia a sedersi di nuovo sul paracarro e si scusò per il comportamento dei suoi colleghi. Sarà stato per la colluttazione, per il caldo, per l'emozione, fatto sta che lei svenne fra le braccia del suo eroe e nell'incoscienza percepì quel forte odore di maschio.
Quando si riprese era distesa su una coperta, l'alto eucalipto la proteggeva dai raggi violenti del sole di luglio, un bel volto d'uomo, incorniciato dal cielo azzurro, la guardava in silenzio, il frinire delle cicale fu la colonna sonora del suo innamoramento.
Volterranino! Sussurò l'Argia in un anelito d'amore.
Mi chiamo Egisto. Rispose il bel volto sorridente.
Se il Canova avesse potuto vedere quella scena vi avrebbe riconosciuto il suo capolavoro.
L'Argia andò incontro a quelle labbra come in un sogno, il mondo sparì, e braccia sicure la circondarono, l'amore invase i campi assolati, fino al calar della sera.
Solo la gente veramente semplice è capace di vivere le cose senza coscienza, e i due neo amanti non ne ebbero, non si curarono del tempo, degli impegni o del ruolo sociale che non avevano, ricchi della libertà fatta del poco avere. Ma Egisto aveva una catena al collo, che la sera verso le otto cominciava a tirarlo, il permesso parlava chiaro, entro le otto doveva rientrare in carcere. L'Argia trasalì, stava per svenire una seconda volta ma l'idea che non ci sarebbero state braccia a sorreggerla la obbligò a resistere. Il volterranino era un carcerato e lei gliel'aveva data in assoluta fiducia, mascalzone, approfittare così della sua ingenuità.
Guarda che io son dentro al posto di un altro! Chiarì subito Egisto vedendola così pallida.
Bugiardo! Che vuoi continuare a ingannarmi? Singhiozzò col seno che sussultava impietosendo l'uomo.
Ascolta Argia, ascolta bene, te la racconto una volta sola la mia storia. E poi fai come tu vuoi!
Tre anni fa lavoravo l'alabastro insieme a mio fratello Ersilio. Le ordinazioni non ci mancavano e lui si decise a sposare la Fedora, comprare casa e metterla incinta. Poco prima che nascesse la creatura ci arriva un'ordinazione da un americano che diceva di voler comprare tutta la produzione, anzi ne voleva il doppio. Io e Ersilio ci si frega le mani e si butta i' cappello pell'aria, si comprano a chiodo nuovi macchinari, si disdicono le altre commissioni e ci si butta nel commercio internazionale. Dopo tre mesi Ersilio l'era babbo ma dell'americano nemmeno l'ombra. Ersilio perde i' capo, si fa infinocchiare da un usuraio e peggiora la situazione, dopo un mese gli deve il doppio di quanto ha avuto. Vengono in tre una sera e lo riempiono di botte, se entro una settimana non restituisce i soldi gli stuprano la moglie. Ersilio, ormai in balia di se stesso, fa una rapina alle poste,  ma poi si nasconde a casa mia, piange disperato, che la vita ormai se l'è bell'e giocata, ci vuol poco a rintracciare un bischero, soprattutto se fa una rapina con la seicento della ditta e la lascia davanti a casa mia. Non c'è tempo per pensare, lui è scemo, cieco, incapace, ma c'ha un figliolo e una moglie, io no. Mi sostituisco a lui, tanto col passamontagna nessuno lo aveva visto in faccia, vado dai carabinieri, restituisco i soldi e mi consegno al posto suo. M'è andata bene, sei mesi in gabbia ma dopo tre posso lavorare fuori durante il giorno. Lui ha venduto tutto, anche la casa, non ce l'ha fatta a denunciare l'usuraio, ora lavora l'alabastro come dipendente, e la su' moglie fa le pulizie, il bambino sta bene. Non li voglio più vedere.
Ora devo andare, mi manca un mese e mezzo e t'ho detto la verità. Addio Argia.
Egisto rientrò in carcere e l'Argia guarì dalla depressione. Se il volterranino era così bello e in balia della vita, anche lei poteva accettarsi per come era, anzi, ora aveva una perla in più nel cuore.
Tornò al suo paese, dove erano tutti in pensiero per lei, ma lessero nel suo volto una bellezza che rassicurò chi le voleva bene davvero, mentre fu motivo di maldicenze per chi non aveva mai fatto un "viaggio" come il suo (ed erano in tanti, soprattutto quelli legati dai lacci dell'ipocrita morale cattolica). Sparare giudizi a raffica su ciò che non si riesce a comprendere è la prerogativa dei cretini e dei bigotti, un modo di esorcizzare le proprie brutture alienandole negli altri. Per il sudicio tutti sono sporchi.


*************
Il carcere è un luogo dell'animo oltre che un edificio per raccogliere gente sbandata. Egisto, quando la sera rientrava in cella, prima ancora di varcarne la soglia e di sentire lo scatto del cancello, si era già rinchiuso in se stesso, lasciando fuori solo la coscienza che gli permetteva di svolgere le normali incombenze di quell'esistenza assurda. Sentiva e vedeva le mura di quell'edificio come le braccia di un tutore stupido, eletto in quel ruolo dall'altrettanta stupidità degli uomini che lo riempivano. Tutto era stupido. Puoi insegnare ed educare, punendolo per i suoi errori, un cane ma non un uomo. Un cane "sbaglia" perchè è un cane e non può sapere quello che vuole da lui un uomo. Quindi è anche errato dire che "sbaglia". Un uomo no, sa di sbagliare, sa benissimo quando delinque, e non serve insegnarglielo come se fosse un cane. Lui sbaglia perchè vuole sbagliare, per cui a rigor di logica è un matto. Oppure "sbaglia" per necessità, perchè non ha modo di agire altrimenti per sopravvivere, ed allora la colpa del suo sbaglio è in chi lo mette nell'impossibilità di agire diversamente.
La cella era al buio, Egisto sentiva solo il respiro degli altri detenuti, i gorgoglii di qualche stomaco, il suono di qualche pagina voltata al lume di una piccola pila, in un'altra cella, in un altro microcosmo come quello che lo ospitava da cinque mesi e ventinove giorni. Domani sarebbe uscito, l'alba giunse lentamente, tutto iniziò a svegliarsi, ma lui non si era mai addormentato.
Dalla piazzetta di Volterra partì una corriera che andava verso Colle val d'Elsa e da lì c'erano coincidenze per Firenze o Siena o altri paesi. Egisto andò a cercare l'Argia, la sua ultima coincidenza.
Sceso dalla corriera si guardò intorno come se stesse guardandosi allo specchio, vedeva in quel paesino il presente della propria vita. Poche case, belle pietre, piccoli e stonati tentativi di modernità, uomini col cappello, uomini senza cappello, poche donne in giro, qualcuna col fazzoletto in testa. Ma che ci era venuto a fare? Lui non era di lì, quella non era la sua storia. E quale era allora la sua storia? Quella rovinata dal carcere e dalla pazzia del fratello? Quella lasciata a Volterra e che non poteva più riannodare? Cos'è la storia, una memoria? Lui non la voleva più quella memoria, ma quella gli si era piantata addosso senza che lui glielo avesse chiesto, senza dargli possibilità di scelta. Cosa avrebbe potuto scegliere? Di mandare il fratello in galera e rovinare una famiglia per sempre? E come avrebbe affrontato quella scelta, fregandosene? Con l'esame obbiettivo e il distacco necessario? Belle parole. Ma anche bella presunzione la sua, pensare di essere così libero da poter ricostruire la sua vita ex novo. Chissà come ,senza gli affetti, senza un filo. L'unico filo che aveva fra le mani era il ricordo dell'Argia. L'immagine di quel pomeriggio di luglio non lo aveva mai abbandonato, si era depositata in lui come una speranza, che scambiava per certezza.
Entrò nel bar centrale e chiese di lei, dissero che era in comune. A volte si coglie un senso strano nelle parole, accade che impercettibili risonanze, vagando nella mente, facciano comparire immagini insolite, non implicitamente connesse alle parole udite. L'Argia in comune, in comune con chi, comune a chi? Un fremito percorse la schiena di Egisto mentre attraversava la piazza diretto verso la sede di quel "comune". Varcò la soglia mentre il fiato si faceva stranamente corto, gli occhi correvano per ogni dove, lo stomaco era in tensione, l'andatura rallentava timorosa e incerta, una porta sbattè al piano superiore e passi di donna si mescolarono al suono di altri oggetti, i passi scendevano la scala e lui vide le gambe del suo sogno scendere per la prima rampa, poi la figura intera si fermò sul pianerottolo e lo guardò. Il tempo non esiste, è un'invenzione, un calcolo per gente che si scorda spesso di vivere o che vive così tanto che bisogna fermarla per consentire al tempo di raggiungerla. Quanto durò quel momento non è veramente possibile quantificarlo. Durò il tempo necessario a far passare tutto il presente, e il presente è sempre, quando lo vivi. Poi l'Argia scese lentamente la seconda rampa, con gli occhi già persi in quella figura ai piedi della scala. Le dita tenevano il corrimano quasi a chiedergli se quello che aveva intorno era vero, o come quando ci si tiene per mano per farsi coraggio nell'affrontare un'emozione troppo forte. Il silenzio tratteneva il fiato per loro, perchè il loro si stava spezzando, squarciava il petto, si gettava dentro l'altro a cercare aria, vita, odore, passione. E tutto aumentava a dismisura col diminuire della distanza, ogni scalino sceso era uno in più di lacerazione fino ad arrivare ad un abbraccio così intenso e forte da sembrare un lunghissimo, inarrestabile orgasmo.
Nel paesino di **** alle due e diciotto del ventisei ottobre millenovecentosessantatre si componeva un'immagine che se uno non la vive non la potrà mai comprendere.


(Forse la storia continuerà...)

mercoledì 28 marzo 2012

L'arte della memoria e la botta di culo



Chissà se ricopierò mai queste righe scritte a mano. Che effetto la calligrafia, che meraviglia trascurata e che piacevole sensazione sentir scorrere la penna sul foglio.
Sì, la bestia immonda s'è rotta, improvvisamente, senza alcun segnale premonitore o avvisaglia di sorta, il suo cuore, che sarebbe poetico chiamare così ma è un falso perchè si chiama hard disk e quell'hard la dice lunga sulla totale assenza di umana morbidezza, dunque dicevo s'è rotto, pare irrimediabilmente. Lo hanno dichiarato dei "medici" specialisti che ho consultato prima di tornarmene mesto a casa.
Ed allora, nel fancazzismo serale, ho preso carta e penna per provare gioie d'altri tempi. Le lettere ora fioriscono da un sottile filo d'inchiostro e prendono la forma della mia sgangherata  ma unica calligrafia. Avete mai pensato a quanta unicità ci toglie la tastiera per uniformarci tutti? Oh, dirà qualcuno, ma ci sono delle calligrafie illeggibili che almeno la tastiera rende comprensibili. Io risponderò che chi non fa il piccolo sforzo di rendere la propria calligrafia leggibile non merita d'esser letto, è una questione di rispetto per gli altri. Me compreso ovviamente, dal momento che mi sto rendendo conto di quanto sono arrugginito. Le n e le m mi vengono male, diventano quasi linee rette, perdendo la dolcezza delle loro curve.
Ad ogni modo l'arresto cardiaco della bestia immonda  mi ha fatto perdere codici, password, foto, musiche, racconti, indirizzi e via dicendo.
Ah, la memoria!
Disperazione?
Ma nemmeno per idea, quello che la mia memoria non riuscirà a tenere vorrà dire che non era importante. (Ovviamente faccio lo splendido ma mi girano i coglioni!!!).
Però un pensierino sulla memoria l'ho fatto poco fa mentre ero in giardino e osservavo la Luna crescente, Giove era già scomparso e Marte arrossiva all'inseguimento di Venere che brillava esageratamente. Orione era ancora là, ma senza il mio Dobson non posso vedere la sua splendida nebulosa. In compenso ho salutato e ringraziato Castore e Polluce per avermi riportato alla memoria (appunto) un vecchio nozionismo universitario che racconterò brevemente.
La leggenda fa risalire l'invenzione dell'arte della memoria a Simonide di Ceo (detto anche Simonide Melico), un poeta greco del VI-V sec. a.C. (se non vado errato), che fu invitato ad una festa per celebrare le doti del suo agiato e potente ospite (i ricconi facevano così per farsi pubblicità, mica avevano le tv e i giornali).
Quando Simonide ebbe finito di declamare il suo canto il padrone di casa gli pagò metà del pattuito, adducendo il pretesto che siccome metà del canto era stato dedicato a Castore e Polluce, la quota che mancava se la doveva far pagare da quei due. Simonide ci rimase male per questa bassezza, ma proprio in quel momento gli fu detto da un servo che due signori lo attendevano fuori e quindi uscì per incontrarli. I due signori erano Castore e Polluce e nel preciso istante in cui Simonide uscì, il tetto della casa crollò uccidendo tutti i commensali. I loro corpi erano così devastati che non li potevano riconoscere, ma Simonide ricordava mentalmente la posizione che occupavano durante il banchetto e così riuscì a identificarli tutti. Castore e Polluce gli avevano salvato la vita, un bel modo per pagare la loro quota!
Nacque così l'arte della memoria, detta anche mnemotecnica, usata da Cicerone come da Pico della Mirandola e perfino da Giordano Bruno.
Adesso ci sono i computers.


P.S. dopo che gli esperti avevano decretato la fine del mio vetusto portatile me ne sono tornato a casa un po' afflitto e, come ho detto, mi sono messo a scrivere a mano per passare il tempo ascoltando un po' di musica (la tv è ormai bandita da casa mia). Stamattina m'è venuta voglia di dare un ultimo sconsolato saluto al defunto, ho provato ad accenderlo per l'ultima volta e lui stava lì zitto, inerte, spento, muto, immobile come il giorno prima,  allora ho premuto f9 ed ho cambiato boot (non chiedetemi cosa cazzo sia, l'ho fatto a casaccio) selezionandone un altro, tanto, mi son detto, morto per morto non morirà certamente di più.
Magia, miracolo, resurrezione, chiamatelo Lazzaro o come volete, fate voi, ma eccolo qui vivo e vegeto che spernacchia ai tecnici ed agli esperti (dei miei coglioni!). E quindi la felicità mi ha costretto a ricopiare tutta questa pappardella!!!!

lunedì 26 marzo 2012

Opportunità



Essere svegli alle 4 per colpa della cervicale non ha prezzo!
Era da un po' che non mi rompeva i coglioni e quasi quasi m'ero illuso d'essere guarito.
Oh, non ho fatto in tempo a pensarlo che subito è tornata a rassicurarmi.
Cervicale: Ciao caro, ti faccio male qui?
Ruhevoll: Abbastanza grazie!
C: Oh come mi dispiace, ma sai, non lo faccio apposta, è che sono un po' isterica e mi tendo come una corda di violino!
R: E pensare che io nemmeno lo so suonare il violino, sai che me ne faccio di quella corda!!!
C: Cerca di rilassarti mio caro.
R: Non per essere scortese, ma se tu ti levassi dalle palle io sarei rilassatissimo.
C: Ma via, non dire così, in fondo, alla tua età, come faresti senza almeno una piccola acciaccatura?
R: Le acciaccature mi piacciono poco anche in musica, figurati sul collo!
C: Ma dai, il medico ti ha detto che hai il colesterolo di un ventenne!
R: Ecco, ho le cose quando non mi servono!!!!
C: Su, sii positivo, cerca di vedermi come un'opportunità.
R: Oh sì, che bell'idea geniale, adesso la scrivo nel blogghino, sarà sicuramente di estremo interesse per i miei amici e quasi quasi vado anche a svegliare quella tipa che ronfa beata nel letto e glielo racconto pure a lei che tu sei una splendida opportunità per rendere le nottate indimenticabili!

mercoledì 21 marzo 2012

re



Il re rotto giaceva,
sfilacciato e sghembo,
morto, sordo, divelto
dalla culla del suono.
L'occhio lo vide
ma fu l'orecchio
a piangerlo
nel silenzio.
Che mai t'è successo
re mio dolcissimo,
fu forse il freddo
a spezzarti in questo modo
o l'abbandono?
Il re non rispose (e come poteva?)
le altre cinque erano lì,
testimoni d'un'assenza,
e tese mi guardavano,
tremebonde.
La morte del re
fu per tutte una sciagura,
l'ebano della tastiera
ne colorò il lutto.
Addio mio re,
addio per sempre.
Già è pronto un altro,
nuovo, scintillante,
e con lui tutte l'altre
dovranno esser nuove.
Tu finirai come un Faraone
sepolto nella sabbia
con le compagne tue.
Nessuno più saprà
come vibravi tu
insieme a loro.


Spietata è la legge dell'equilibrio armonico.


Ma come sopportare
il canto nuovo e cristallino
d'una giovin corda
sola
in mezzo a un coro
di vecchie smaneggiate?
La musica attende,
paziente e ingrata,
cinica,
vuole le corde nuove,
tutte.
Ed ecco le dita,
morbide e sapienti,
sfiorar le vergini
ansiose di belle note
alla prima accordatura.


Aprire la custodia della chitarra e scoprire che il re si è rotto provoca sgomento.
Nella chitarra classica, almeno per mia esperienza, il re è la corda più delicata, mentre nella chitarra folk, che ha corde di metallo, è il mi (detto volgarmente cantino) a soffrire la propria sottigliezza, ma più di tutti è il sol della chitarra a dodici corde a produrre ansia quando si cerca di accordarlo, è talmente sottile che occorre una calma ed una dolcezza infinite per non stressarlo.

lunedì 19 marzo 2012

Accidenti



Accidenti, mi sono sbagliato.
Chiedo scusa...ma sono un fagiano.
Non avevo immaginato quanto mi sarebbe mancato scrivere le mie cazzate e condividerle con gli amici del blog.
Ora mi tocca sfrucugliare ulteriormente su questo strano mondo virtuale e su questo nuovo modo di essere amici (io sono un rompicazzi, lo ammetto, soprattutto di me stesso).
La cosa che più di ogni altra mi è sempre piaciuta è che qui non si dà peso alla figura, alle fattezze, al sembiante, all'aspetto fisico: lo inventiamo, lo immaginiamo, lo deduciamo, lo ipotizziamo, e poi ce ne freghiamo. So un'accidente io come cazzo siete fatti voi, se siete grassi, magri, alti, bassi, vecchi, giovani, belli o brutti.
Eccole le due paroline magiche da tutti temute, belli o brutti.
Se c'è un luogo dove finalmente ci si può rendere conto che la bellezza e la bruttezza sono prima di tutto dimensioni interne è proprio questo!
Non a tutti piace Picasso, ma a me, che un tempo non ero certo un suo ammiratore, capitò di osservare attentamente due suoi dipinti che raffiguravano una ragazza. Ovviamente era tutto un casino, gli occhi da una parte il naso dall'altra, la bocca per i fatti suoi, insomma se avessi pensato che la pittura è rappresentazione fotografica della realtà quello era solo un gran bordello.
E invece, siccome ero in vacanza in Spagna e quindi molto calmo e rilassato, mi accorsi che quei dipinti non erano affatto dissociati, quelli erano due ritratti dell'immagine di una bellissima ragazza. Ho dovuto scrivere "dell'immagine di una bellissima ragazza" e non "di una bellissima ragazza". L'ho fatto per riuscire a spiegarmi dal momento che spesso, quando parlo di immagine, qualcuno capisce figura, mentre invece l'immagine di una persona non è solo il suo aspetto esteriore, anche se poi si riflette su di esso, ma il suo modo di essere, di muoversi, di pensare, di amare e odiare.
Quante volte mi è capitato di "innamorarmi" di persone che secondo i canoni estetico- demenzial-nazisti non erano per niente belle, eppure sprigionavano una calma, una vitalità, un'intelligenza, una sensibilità, una forza, una profondità che mi mandavano in brodo di giuggiole.
Erano bellissime persone.
Nei loro occhi si celava una luce speciale.
Cosa poi sia la bellezza di una persona non lo so dire, mi affido volentieri ai versi di una poetessa geniale che un'amica mi ha fatto leggere proprio stamani:


La poesia-
ma cos'è mai la poesia?
Più d'una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
come alla salvezza di un corrimano.
( Wislawa Szymboroska)


Ecco fatto, ora però mi son rotto di scrivere, anche se ci sarebbe tanto da dire sull'immagine e sulla confusione che c'è in giro riguardo a questa parola.
Che sia solo un problema di piattezza come quella degli stilisti, che celebrano l'aspetto annullando il contenuto?
Come dico sempre con gli amici, se uno è una piastrella non vede altro che piastrelle, sta attento alle piastrelle, osserva le piastrelle, si interessa di piastrelle, si preoccupa per le piastrelle, ama le piastrelle e... vive la sua vita di piastrellista.
Ora scelgo una foto per questo post primaverile, ne ho scattata una poco fa all'albero della mia vicina (cazzo com'è bello!), pare sia coperto di neve e invece...