mercoledì 27 marzo 2013

...Il giorno seguente non morì nessuno.



Qualche settimana fa lessi su facebook una frase tratta da Le intermittenze della morte di Josè Saramago "Lei, che non dormiva mai, sentì che il sonno le faceva calare dolcemente le palpebre. Il giorno seguente non morì nessuno". 
Forse ne ho già parlato, non ricordo, ma in ogni caso lo ripeto, è il mio libro preferito. E leggendo quella frase mi sono chiesto perché mi porto quel libro nel cuore.
Non ho certo la pretesa, ignorante come sono, di farne qui una recensione, no, voglio solo scrivere a braccio il motivo profondo, e semplice, per cui quel racconto è per me un capolavoro assoluto.
La morte è una gran rottura di coglioni, oltretutto moltissimi religiosi, e altri furbetti frastornati, tentano di fracassarceli ulteriormente menando storielle assurde su reincarnazioni o paradisi o inferni o vattelapesca quali altre minchiate.
Cerchiamo di cambiare prospettiva e osserviamola dall'angolazione geniale e paradossale che ci propone Josè.
La morte a un certo punto si stufa di fare sempre le stesse cose, ossia di prelevare a suo insindacabile giudizio le persone senza dar loro alcuna possibilità di replica, senza ascoltarle, senza chiedere, senza comprendere.
Il protagonista è un violoncellista che vive solo, e appare chiaro come nella sua grigia esistenza la musica sia l'unica forma di desiderio che possa permettersi. Ma è proprio questa ostinazione, che definirei psicofisica dell'uomo, a incuriosire la morte, che deciderà, visto che si annoia, di prendere le sembianze di una bella donna per sedurre l'uomo. Lo farà come può farlo la morte, cioè per condurlo a sé, per portarlo alla sua conclusione, alla soluzione ultima, alla fine del desiderio, alla morte appunto. Ma la morte, non essendo mai stata di carne e sangue, non sa a cosa andrà incontro.
Trovo singolare che Saramago abbia rappresentato la morte attraverso una donna, ma forse sarebbe più interessante e corretto dire il contrario, cioè che ha rappresentato la donna attraverso la morte. Come a dire che l'uomo cercherà la donna fino alla fine dei suoi giorni (e viceversa, ma questa è solo una supposizione dato che chi scrive è un uomo e, per onestà, non può permettersi di parlare per l'altro sesso).
La vitalità è una spinta che si estingue nella morte cedendole il corpo, ma quando è unita alla creatività, e salvo imprevisti tecnici, si rinnoverà in continuazione come un'araba fenice, colorando la vita di un senso che altrimenti non avrebbe.
Chi non ha mai provato veramente il desiderio per l'altro sesso non comprenderà il senso e la verità di questa allegoria.
Vi siete mai ammalati d'amore? Avete mai avuto i crampi allo stomaco? Avete mai visto la morte in faccia per un abbandono? Avete mai assaporato quella morte che non tocca il corpo, salvo sconquassarlo un po', ma destabilizza la salute mentale? Siete mai stati in bilico sul precipizio? Avete mai avuto la vertigine per la realizzazione di un sogno d'amore? Avete mai provato il dolore allucinante che consegue alla sua perdita? Avete mai guardato nell'abisso?
Non c'è niente di romantico in tutto questo, è solo un fatto umano.
Non riproduttivo ma creativo.
Per un uomo la realizzazione dell'immagine femminile è il massimo a cui possa tendere. Senza di essa è un uomo a metà, un animale astratto, un seminatore di deserti, un pazzo solipsista che odia e fugge il diverso da sé.
Se è uomo farà i conti con la donna e la donna li farà con lui. Non è una questione sessista, è un fatto legato alla fisiologia e alla forma del nostro corpo, quindi anche alla forma del desiderio, a meno che non si creda nello spirito santo.
C'è chi tenta di fuggire da questo confronto, ma quei tentativi non interessano l'autore del libro, né il sottoscritto. Al massimo possiamo comprendere gli errori, gli smarrimenti, ma non l'ideologia che ne potrebbe derivare, perché sarebbe un'infezione mortale che porterebbe alla pazzia.
Quindi la morte, che non era mai stata di carne e sangue, diventando donna s'innamorò dell'uomo e gli regalò il tempo necessario a realizzare un sogno.
Quel sogno che chiamiamo amore.
…Il giorno seguente non morì nessuno.

domenica 17 marzo 2013

Amanti e chitarre











Ho sempre sentito dire che la chitarra, se te la sogni, è una rappresentazione dell'immagine femminile.
E io che ho fatto? Me ne sono sognate due, che sbruffone. Non avendo, nei fatti, un'amante, ho pensato bene di comperarmi una nuova chitarra, la quarta, se non considero quelle che ho avuto e poi ceduto negli anni passati. Forse sono musicalmente musulmano.
A casa mia le chitarre parlano, in fondo se già lo hanno fatto i cani possono farlo pure le chitarre, che male c'è. Quando un oggetto cade o una voce sfiora certe frequenze, loro vibrano delicatamente, entrano in risonanza. Che carine, sono vive, si emozionano!
Insomma è andata così.
Qualcuno forse ricorderà, ma ne dubito, la storiella della Venere di legno (mi accorgo però che il post sulla Venere di legno non l'avevo pubblicato, provvederò a metterlo di seguito a questo, scemenza più scemenza meno il danno è minimo). Comunque lei è ancora qui, vive con me da più di vent'anni. Il nostro rapporto è stato oscillante, a volte intenso, a volte blando. Negli ultimi anni l'avevo sempre più trascurata, almeno rispetto ai primi momenti amorosi, o forse era stata lei a stufarsi di me e sperava (attendeva?) di passare sotto le dita di un miglior musicista. Sta di fatto che ultimamente, nel prenderla tra le braccia, sentivo la sua leggerezza come fosse la prima volta che la sfioravo, ma le mie dita arrancavano arrugginite e la sensazione di essere un imbranato che ha a che fare con una dea superba quanto spietata mi deprimeva.
Qualche sera fa ho portato a casa la nuova chitarra, aspettandomi una scenata di gelosia dalla Venere, e invece niente.
Dovevo valutare se la nuova arrivata mi sarebbe stata utile per delle nuove sonorità o se addirittura poteva rivelarsi in qualche aspetto superiore alla Venere stessa. Le ho messe accanto e, almeno esteticamente, non c'era storia, la Venere è insuperabile, ha delle curve perfette, un colore unico, è una Venere scura, fa venire in mente il Nigra sum sed formosa del Cantico dei Cantici. Ho quindi preso tra le braccia la nuova venuta e ho iniziato ad arpeggiare vari accordi, lei mi rispondeva con voce equilibrata e abbastanza corretta, ma senza nessun carattere, senza provocare in me nessuna passione particolare, dovevo forzare molto le corde per farle fare un gridolino interessante, ma lei poi finiva spesso per “strappare”. E che cazzo, ma sei di legno?
Ho preso la Venere ed ecco che la mia pancia ha iniziato a fremere, le armonie tornavano, le ottave e le quinte erano corrette, l'orecchio si appagava. Lei ha un suo suono, quello a cui il mio orecchio tende, che non è detto sia perfetto per tutti, ci sono suoni infinitamente più belli (cavolo, mi viene in mente Ezra Pound, ci sono cantori più bravi di te).
E quindi siamo pari, nel senso che anche se la Venere aspettasse musicisti migliori, dovrà sapere in cuor suo che ci sono anche chitarre più belle di lei.
E tutto questo non vuol dire niente.

La Venere di legno

Buonasera, dissi varcando la soglia del negozio mentre lo sguardo già percorreva ansioso tutta quella parata di meraviglie appese, appoggiate, sdraiate o gelosamente custodite, esposte, esibite, mostrate, ostentate. Come di fronte a una folla di forme e profumi i sensi indugiavano a distinguer bene, l'occhio si smarriva, l'olfatto non selezionava, per il tatto era troppo presto, il gusto fuori luogo, ma l'udito...l'udito era impaziente.
Buonasera, disse la padrona.
L'obbligo della buona educazione mi impose di rivolgere un sorriso e una domanda, ma ne avrei fatto volentieri a meno. Quanti ostacoli, quanti convenevoli, quanto tempo vien sprecato per l'ovvio. Sembra che una frigida perversione ci abbia imposto di occultare l'immediatezza, rallentando tutto in una forma algida e fuorviante, per distogliere l'attenzione dalla nudità, considerata oscena, del nostro volto chiaro e manifesto, passaporto inequivocabile della nostra intelligenza, permettendo così alle parole di mascherare inutilmente il colpo d'occhio che investe l'uno e l'altra in un baleno. Transitori d'attacco, così si chiamano quelle porzioni in microsecondi all'inizio di un suono. Contengono tutte le informazioni d'identificazione dello strumento che l'ha emesso, togli quelle e non distingui più un fagotto da un pianoforte. Tutto in un tempo incredibilmente breve. Secondo me avviene così anche tra le persone.
Desidero vedere una Ramirez, chiesi spostando velocemente e impercettibilmente lo sguardo fra gli occhi e la bocca di quella donna.
Sì, ne abbiamo due, gliele mostro.
Ne abbiamo? Ma quanti siete, vedo solo lei in questo negozio, mica userà il plurale maiestatis, pensai ridendo fra me, forse vuol dirmi che fa parte di uno staff, bugiarda, è la padrona, i suoi dipendenti, che non ci sono adesso, sono dei subordinati, no, questo lo chiamerei plurale d'importanza malcelata, nel senso che finge la modestia ma fa sdoganare il vanto. Oppure, più semplicemente, si aggrappa a quel plurale per difesa della sua solitudine in quel momento, davanti a uno sconosciuto...che però le ha chiesto una Ramirez, cazzo!
Andò, io la seguii. Mentre tutte le altre mi osservavano passare, occhieggianti, ammiccanti, un po' puttane, chissà quante mani vi avranno sfiorate, insozzate, stuprate, scordate. Chissà cosa si dicevano, mi sembrava di essere in un bordello. Ecco un nuovo cliente, sussurravano, chissà chi sarà la fortunata, diceva una, o la sventurata, risuonava un'altra. Guardagli la mano destra, ha le unghie... e un coro di bisbiglii sconfortati pervase un'ala del negozio. Bene, disse una, vien da noi di sicuro, ragazze per voi non c'è storia, cantò strafottente alle altre che si erano lamentate.
La padrona aprì una teca d'angolo, non in evidenza ma ben pulita e illuminata. Mentre girava la chiave pensai a Porzia e ai suoi tre scrigni, di chitarre ce n'erano tre. Ma non aveva detto due? Chi era la terza? La curiosità frantumò in un attimo le mie certezze, ma in un lampo tornò in mio aiuto il nome altisonante delle due: Ramirez. Statuarie, nobili, sprezzanti. Atreiu sotto al varco dell'Oracolo del sud fu l'impressione. Ma l'occhio già spingeva verso l'altra, la sconosciuta. Tormenti che vi auguro di non provare. Smarrito già all'istante e poi da che? Un mondo mi passò infinitamente, un me bambino in quella strada, coi soldi in mano davanti alla vetrina, tanti anni fa. Deciso, quella volta, non ce n'è altre. Quella voglio, ecco qui il denaro.
Adesso sono ricco e titubante.
Presi la seconda, la prima era da studio, non fa per me, sono ignorante. Con calma lieve l'appoggiai alla gamba e già ne valutavo il peso con l'odore. Toccai la sesta e dopo tutte le altre cinque, breve ritocco dell'accordatura, poi un attimo sospeso ad intuire cosa mi chiedeva che dovessi fare. Un mi, va bene, un sol, fatto, un si, eccolo. Ottima, equilibrata, pronta, senza mezzi suoni. Ancora, sol,re,fa,mi. Bene, risponde, mi segue, vuole andare, è una spagnola, proviamo con Asturias. Le dita non subito pronte, così a freddo, tradirono Albeniz al primo barrè, ma la cosa non importa, stavo provandola, non stavo registrando. Mi fermai e osservai la padrona, che sorridente appariva inorgoglita, di cosa poi non capivo, ma le sorrisi anch'io. Imbarazzato dalla sua presenza guardona continuai in un arpeggio improvvisato. Mi dava fastidio quella donna. Perchè non ci lasciava soli? Sembrava una madre nera che agguinzaglia la figliola. Ma intanto l'occhio mio divenne Margherita, che tra le braccia dell'amante già ammicca al nuovo. Posso vedere la terza?
A te che leggi non saprò mai dire, cosa successe dopo non ha parole, un brivido montava nella mano che sollevò quella Venere di legno antico, leggera, in modo inaudito, sembrò adagiarsi fra le mie braccia con riservato ardore, tremava lei o tremavo io? Il fiato corto e l'emozione fecero sparire quella megera impiantonata. Non c'era più, non c'era più nessuno, sparito il mondo. Non chiesi, e come potevo, le note da suonare, con quella grazia o sei te stesso o lascia stare. Ti guarda in faccia, ti preme contro il cuore, s'insinua fra le gambe, aspetta la tua passione. Tu temi quelle altezze, potresti incespicare, ti gira la testa non sai più dove andare. Respiri, calmo, ti lasci un po' andare, ascolti, ascolti bene.
Feci una cosa insolita, portai la sesta in re, poi non so dirvi altro, sarebbe qui impossibile.
Potrei allungare sconsideratamente questo racconto con giravolte e fulmini, ponti celesti o gole inabissate. A volte l'onestà è un obbligo, ed io mi fermo a questo punto, quasi fosse una corona al termine di una partitura, sulla soglia della musica, per rispetto a lei ed anche a voi.
Adesso è qui accanto a me, regala alla mia casa il suo profumo, ma quando la tocco le parole si trasformano e mi dispiace di non potervele far sentire.

sabato 2 marzo 2013

piccole felicità



Sono anni che non faccio movimento e, data la non tenera età, sto accusando qualche cigolio alla spalla sinistra, per non parlare del resto. Purtroppo ho una certa incompatibilità con le palestre e i luoghi dove si fa fatica per fare fatica, soprattutto al chiuso. Io devo divertirmi o distrarmi all'aria aperta per fare fatica, altrimenti non se ne parla nemmeno.
Qui a Firenze abbiamo un fiume, poco frequentato dai fiorentini perché puzza d'estate ed è pericoloso d'inverno. Però ci sono due club di canottieri, uno vicino al Ponte Vecchio e uno al ponte da Verrazzano, soprannominato da Terrazzano per le insulse terrazze che lo agghindano. Il primo club è fiorentinamente snob, saturo della borghesia locale, buona parte di mia conoscenza e dalla quale è meglio stia alla larga se voglio conservare il buonumore. L'altro club è invece chiaramente indirizzato all'agonismo, un mio compagno di liceo lo frequentò nei bei tempi andati e vinse addirittura una gara di campionato italiano. Ci vuol poco a capire che non è un luogo adatto a me.
Per farla breve, tempo fa mi hanno detto che c'era un minuscolo circolo di canoa subito fuori Firenze, dieci minuti di auto da dove sono io, venti in bicicletta. Oggi ho deciso di andarlo a vedere, ma nei paraggi nessuno sapeva dirmi dov'era e nemmeno se esisteva. Cazzo, mi son detto, se esiste è quello che fa per me. Dopo essermi perso per stradine amene, alla fine l'ho trovato. Perfetto, sfigato, leggermente squallido, poco frequentato. Due belle figliole giocavano a tennis in uno dei due campi a disposizione, più in là tre figure stese su un pratino a prendere il sole, dentro la sede il custode armeggiava con un distributore di bibite e due soci in accappatoio leggevano il giornale. Ho pensato che già amavo quel posto. La quota d'iscrizione è ridicola. Il presidente in persona, un tipo che sembra uscito da una ciurma di pirati caraibici, con un occhio meraviglioso e l'altro grigio cataratta (o di vetro???), mi ha gentilmente spiegato che è un circolo di sperduti e beati, o di beati perché sperduti, ognuno fa quel che vuole, ci va quando vuole e addio belloni. Gli ho chiesto che genere di attrezzatura dovevo procurarmi, e lui mi ha guardato incredulo, poi ha alzato le spalle dicendomi che in canoa potevo andarci anche vestito da ussaro se mi faceva piacere, per il resto mi danno tutto loro, canoa, pagaia, salvagente e un calcio nel culo d'incoraggiamento.
Sono un uomo felice, lunedì vogherò con la lena di un bradipo, solcando il fiume in lungo e in largo, tirando scapaccioni alle nutrie e pagaiate alle carpe.
Viva la canoa!
Tanto pioverà sicuramente.