venerdì 24 dicembre 2010

Dialogo con l'inquietudine

"Avanzo lentamente, defunto, e la mia visione non è più mia, non è niente: è quella dell'animale umano che ha ereditato senza volere la cultura greca, l'ordine romano, la morale cristiana e tutte le altre illusioni che formano la civiltà all'interno della quale io percepisco.
Dove saranno i vivi?" (F.Pessoa, il libro dell'inquietudine)

Allora, mio caro Ruhevoll, cosa mi racconti in questi festosi giorni monotoni.

Non sono tuo, nè mi chiamo Ruhevoll. E già mi appare l'assurdità di questa frase, che io non mi chiamo mai, non ne ho certo bisogno, ci sono sempre e non mi separo da me stesso, non mi scindo. Il mio vero nome forse si compone solo sulle labbra di una donna, quando lei ha il coraggio e l'amore per dirlo, libera dai lacci sociali, dall'inganno, dall'età e dalla coscienza. E si dissolve quando lei mi abbandona per pronunciarne un altro, io sono la percezione altrui, il suo disegno. Senza di lei ho forma vaga e posso essere ciò che voglio, immerso in questo brulichio di volti senza suono, in una solitudine piena di possibilità.

Come canti in riverbero Ruhevoll, permettimi di chiamarti ancora così, lo faccio solo per capirsi.

Ma cosa vuoi capire tu da un nome? Quanti nomi sono dei vestiti indossati da oggetti sbagliati, abiti di qualcos'altro, concetti astratti, linee spezzettate che suonano dissociate senza comporsi in un'immagine, o ancora parole che posandosi su ciò che non ha immagine tentano di evocarne l'idea. Ho dovuto scrivere un sacco di righe per tentare vanamente di dare un mio significato alla parola ruhevoll e tuttavia ne restano fuori infiniti aspetti e sfumature. Nemmeno la musica, per quanto più efficace, riesce a definirlo.

Un vero poeta reinventa il linguaggio correndo il rischio di restare solo.

Si resta sempre soli quando riusciamo a dire le cose, anche senza essere poeti, perchè per poterle dire ce ne dobbiamo separare, prenderne le distanze. Come in queste celebrazioni del Natale, che mi fanno pensare alla festa dell'otto marzo, si celebrano le cose verso le quali si hanno sensi di colpa.

E quale colpa ci sarebbe nel celebrare il Natale?

Nessuna colpa, forse, semmai la complicità col furto cristiano verso ciò che non ha niente a che vedere con la cristianità: la nascita. E quindi, monotonamente, come ogni anno farò a meno del Natale, farò a meno della bontà associata alle scorpacciate, farò a meno delle lucine colorate e dei sorrisini imbecilli, dei pensierini di pace e fratellanza da mettere sotto alberi ormai tagliati, farei anche a meno di me stesso se fosse possibile, ma come vedi sono qui a scrivere e non ho trovato niente di più adatto che Pessoa per dire quel che penso.
Anche io mi chiedo: dove sono i vivi?

Meno male che hai l'onestà di ammettere la tua monotonia.

A lungo andare diventa difficile trovare risposte creative a questa cantilena ed essa ammoscia anche il mio animo ribelle. Non mi sarebbe sufficiente nemmeno un bel paio di gambe spalancate se anche quelle ripetessero la litania di mugolii senza un'immagine. E quindi potrei variare la domanda di Fernando, dov'è una donna viva?

Qui stai cedendo al pessimismo amico mio. Sta a te disegnare con lei le curve di un amplesso originale. Sta a lei disegnare con te un nome non ancora detto.

Lo scrissi tanto tempo fa:


Trovale una cosa che
non sia già detta,
che non sia passata.
Digliela con gli occhi 
e non una parola
ad increspare l'aria.
Scrivila sulla sua pelle
ed accarezzerai un'idea
sul fior delle sue labbra
schiuse come un'orchidea.


Versi scialbi, da canzonetta, mi aspettavo di più dal momento che hai aperto con Pessoa.


Oh ma infatti era una canzonetta, e non hai ancora sentito qual'era il ritornello:


Suoni che non han rumore
suoni che si vedono
dicono le cose agli uomini
din don bell.


Accipicchia, chiami addirittura Shakespeare a darti mano nelle note finali, ma non sarai un ladro che non ha il senso del ridicolo?


Non mi serve il senso del ridicolo, io lo sono di mio.

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